Excalibur
dal Medioevo
a Disney
Alla ricerca delle origini
della spada nella roccia
Ammettiamolo. Quando si pensa alla spada nella roccia, la stragrande maggioranza di noi vede materializzarsi le immagini del bel film d’animazione americano The Sword in the Stone, firmato Disney: un grande classico uscito nel 1963, replicato a raffica in tv, poi venduto in videocassette, dopo in dvd e oggi pure in streaming, così da conquistare anche le nuove generazioni.
Nel film, Semola è un gracile orfano di 12 anni: fa il garzone ma vorrebbe diventare uno scudiero. Egli dimostra, alla fine, di essere l’unico che riesce a estrarre senza fatica lo spadone; così si guadagna il titolo di re Artù (Semola era il soprannome, per via del colore dei capelli). Intanto si affrontano, a colpi di incantesimi, la "cattiva" Maga Magò e Mago Merlino, alleato del ragazzino e protagonista di irresistibili battibecchi col gufo Anacleto.
Ora un po’ spiace far vacillare, di questi tempi, ulteriori certezze. Però occorre svelare che la saga della spada nella roccia non l’ha inventata Walt Disney (1901-1966); non l’ha inventata neppure lo scrittore britannico Terence Hanbury White (1906-1964), dal cui romanzo omonimo - pubblicato nel 1938 e parte della serie denominata Re in eterno (The Once and Future King) - Disney trasse il film. Semmai T. H. White ha scritto (a modo suo, modificando le versioni precedenti) una delle più influenti opere moderne sul mito di re Artù, a sua volta parzialmente rielaborata nella versione cinematografica. Insomma, altro che invenzione novecentesca: il nostro Semola disneyano è l’erede di una storia che, come vedremo, affonda le radici nell’XI secolo (mentre sono campate in aria le ascendenze celtiche).
Excalibur. La spada nella roccia fra mito e storia
di Francesco Marzella
Salerno
Editrice - Roma
Euro 18,00
Grazie a studi molto approfonditi, l'evoluzione di questo racconto millenario - dalle origini all’era del Web - è diventata il tema di un saggio serissimo, seppur godibilissimo sul fronte della lettura anche da parte dei non-addetti-ai-lavori. Il titolo è 'Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia' (Salerno editrice, Roma 2022), con prefazione del medievista Franco Cardini. Lo ha scritto Francesco Marzella, studioso italiano che nel Regno Unito è Research Associate del Department of Anglo-Saxon, Norse and Celtic dell’Università di Cambridge; si occupa di Letteratura latina medievale, con particolare passione per l’agiografia e i testi arturiani.
Il suo libro non ha solo il pregio di svelare quali siano le radici di un racconto che ha eccitato ed eccita ancora la fantasia di milioni di bambini e di adulti. Il saggio ha anche il ruolo fondamentale di contribuire a riconoscere il carattere di oggetto di ricerca storica ai miti e alla memoria più o meno deformata (quindi pure al Medioevo immaginario), ai loro sviluppi e ai loro sedimenti. Ruolo tanto più meritevole in un periodo in cui, a colpi di presunti “secoli bui” e di altri luoghi comuni farlocchi, le opinioni sbagliate sul periodo medievale sono una marea e influenzano l’uso delle parole: dai servizi giornalistici ai discorsi della politica, fino alle nostre chiacchiere. Non solo: soprattutto in Europa influiscono anche sui nazionalismi, sulla genesi di certi partiti e persino su quella delle guerre (presunte comuni radici “medievali” sono state evocate, tra gli altri pretesti, dalla Russia di Putin come alibi per invadere l’Ucraina).
Insomma, anche attraverso l’evoluzione secolare del racconto dedicato alla spada nella roccia si può provare a vedere che cosa succede nel cortocircuito tra la costruzione del discorso storico e la percezione che ne ha chi ascolta o legge quel discorso (già vari anni fa il medievista Giuseppe Sergi ha usato l’espressione “storiografia percettiva”). Questo libro riesce a tenere insieme con efficacia tali elementi e non farci perdere la rotta in un labirinto di fonti che ci portano dall’Inghilterra dell’XI secolo alla spada di san Galgano, infissa tuttora una roccia nell'Eremo di Montesiepi a Chiusdino (Siena). Dunque, come scrive Cardini nella prefazione, è "una narrazione spiraliforme, dove a ogni istante si ha la sensazione di essere sul punto di perdersi e dove tuttavia, attraverso infinite variazioni di prospettiva, tutti ritorna e nulla si smarrisce".
L’autore del libro, per giunta, offre una nuova ipotesi, frutto dei suoi studi, sulle radici più profonde di quel mito. Marzella spiega che - sebbene non manchino riferimenti ad Artù in opere latine più antiche o in testi tradizionali del Galles - per la prima volta la saga del re comparve in modo esteso e con molti dettagli nel 1136, in una cronaca in latino, il De gestis Britonum, scritta dal gallese Goffredo di Monmouth: lì viene citata la spada di Artù, Caliburn, chiamata poi Excalibur, forgiata in un’isola misteriosa, Avalon. Però alla roccia in cui lo spadone sarebbe stato infisso non si fa assolutamente cenno. In compenso Goffredo ebbe un successone e ispirò nel giro di pochi decenni più di duecento manoscritti, dedicati alla cosiddetta “materia di Bretagna” (per esempio i romanzi cortesi di Chrétien de Troyes, che nella narrazione arturiana introdusse i personaggi di Lancillotto e Parsifal e soprattutto un altro racconto mitico, quello del Santo Graal).
Invece l’episodio della spada nella roccia fu introdotto solo alle fine del XII secolo dal poeta francese Robert de Boron nel poema Merlin: lo fece per provare l’elezione divina di Artù (per di più, durante il suo regno immaginario la ricerca del Graal arrivò al traguardo), visto che nel racconto solo lui, giovinetto apparentemente senza origini nobili, riesce ad estrarla, diventando il nuovo re in mancanza di un successore del precedente sovrano, Uther. Guarda caso, dopo l’incoronazione Merlino svela che Artù in realtà è il figlio di Uther ed è destinato a guidare i Britanni. Durante il Medioevo questo episodio compare ancora. Per giunta, spesso nel corso dei secoli Excalibur viene confusa con la spada estratta da Artù. Le rielaborazioni sono continuate fino ai giorni nostri, inclusi il libro di White, il cartone animato di Disney e molti altri film e romanzi, alcuni recentissimi.
Ebbene, Marzella, in base ai suoi studi, a proposito della roccia e della spada propone questa genesi, ancora precedente: Robert de Boron sarebbe stato ispirato da una leggenda raccontata nell’agiografia di sant’Edoardo il Confessore, re di Inghilterra dal 1042 al 1066. Questa storia riferisce che il vescovo di Worcester, Wulfstan, è accusato, davanti all’arcivescovo di Canterbury di non essere all’altezza dell’incarico svolto. Wulfstan lascia la parola a re Edoardo, sebbene fosse morto, visto che proprio lui gli aveva dato l’incarico. Va di fronte alla tomba del sovrano e - miracolosamente - con un solo colpo fa penetrare il pastorale (il bastone dall'estremità ricurva usato dai vescovi) nella lastra di pietra che la copre. Nessuno riesce a estrarlo, nonostante tanti tentativi. Soltanto Wulfstan lo fa con estrema facilità e così dimostra di ricoprire il suo ruolo per volontà divina.
Ora che abbiamo scoperto - grazie all’indagine proposta da Marzella - a quale racconto ancora più antico si ispirò de Boron per inserire la variante della spada nella roccia nella letteratura arturiana, non resta che scoprire, leggendo il libro, i percorsi tortuosi attraverso cui la leggenda è arrivata fino a noi. Come mai ha ancora oggi mantiene così tanto il suo fascino? L’autore di Excalibur conclude il saggio con questa considerazione: "La grandezza del gesto di Artù va ben oltre la persistenza del mito e la potenza di un’immagine". C'è un "giovane che libera la spada e riesce nella prova". E non lo fa "grazie a qualche abilità o alla sua forza". Piuttosto ci riesce "facendosi scopritore e rivelatore della propria identità": una specie di giovane Ulisse in un’Itaca “medievale”, aggiungiamo noi. Cosicché quel racconto "è destinato a rimanere un archetipo senza tempo, capace di parlare a ogni epoca".
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