Qual è oggi il suo rapporto con Milano?
Sono arrivato a Milano nel 1989 chiamato a reggere il carcere di San Vittore, avevo
35 anni e molti pensavano, e si fecero anche carico di farmelo sapere, che fossi troppo giovane
per un istituto così complesso. Sarei dovuto durare poco, ma in dieci anni avevo già prestato servizio negli istituti
più duri esistenti in Italia e Milano era allettante, sia per prestigio sia come luogo di
possibile residenza. Entrai in sintonia con la città sin dal primo momento, avvertendo
un sentimento di reciproca fiducia e gradimento che nel tempo è andato ad
accrescersi sempre più.
Ho cercato di dare il massimo nel mio lavoro: impegno
riconosciuto con l’attribuzione, nel 2000, dell’Ambrogino d’oro, una onorificenza di cui
vado orgogliosamente fiero. Ho lavorato per 15 anni a San vittore e quando le promozioni e
altri incarichi mi hanno portato a Roma, come vicecapo del Dipartimento penitenziario al Ministero
della Giustizia, e poi in Piemonte, ho mantenuto casa e famiglia in città. Qui, ora, in pensione dal 2019, mi sono stabilito
definitivamente nonostante sporadici lampi di desiderio per un ritorno al paese natio..
Perché vivere oggi a Milano?
Per i motivi cui ho accennato. Io ho girato molto per lavoro, specie all’inizio della mia attività:
Pianosa, Nuoro, Asinara, Piacenza, Brescia,Taranto e infine Milano. Rischiavo di diventare un nomade,
di non affezionarmi a nulla. Pazienza per me e mia moglie, ma le due figlie avevano necessità di
fermarsi in un luogo, di mettere radici, di avere rapporti duraturi con gli amici, con la gente.
È stato un caso, per me molto fortunato, che la mia ultima sede da direttore sia stata Milano.
Mi è capitata la buona sorte di essere assegnato qui e ho colto l’occasione. Ci ho vissuto bene
nei primi 15 anni, ho deciso di rimanervi per sempre. In me, oggi, convivono spirito napoletano e
pragmaticità milanese. La tentazione di andare via non la sento neppure più, anche se non riconosco
più la città che mi affascinò all’arrivo. Ma poi penso che quella era un’altra epoca, un altro secolo,
un’altra Italia, che, forse, io guardavo anche con gli occhi quasi ingenui, e non avvezzi, di provinciale.
Margini di miglioramento…
Temo che a Milano ci siano grossi nodi da affrontare. Uno per tutti, il traffico: per i tanti effetti
perniciosi che determina. Accidenti che, a mio avviso, per buona parte si cercano di domare riversando
sugli automobilisti ogni responsabilità, comminando multe a ogni piè sospinto. Non sono sicuro che,
in alternativa all’auto, la rete di trasporti pubblici sia bastevole per le svariate esigenze di una
città come Milano.
Sembrerebbe quasi che la ragione di aver creato una quinta forza di polizia,
la polizia locale, sia stata unicamente quella di rafforzare la potestà punitiva.
Come si fa a non rimpiangere i mitici Ghisa meneghini, orgoglio e leggenda invidiata
da tutto il Paese? I vigili urbani milanesi vivevano, molto più che polizia e carabinieri, sul/nel
territorio in un rapporto di prossimità orizzontale. Erano vicini ai cittadini, dialogavano con loro,
non si limitavano a trovare occasioni per multarli.
Si parla poi di transizione ecologica, ma le esortazioni a usare di più la bicicletta non tengono conto
di una città che poco si adatta alla pacifica convivenza del traffico automobilistico con quello ciclistico.
Io la bici la usavo, la usa mio nipote, ma temo sempre l’impatto con una portiera aperta improvvidamente
o con un’auto che ti sorpassa e poi ti taglia la strada, o dover sterzare verso il traffico che ti incalza
perché un tizio ha deciso di parcheggiare nello spazio riservato alla ciclabilità. Quando non voli
per aria perché hai preso una rotaia o le micidiali fessure nella pavimentazione divelta.
Un’impresa tornar sani e salvi a casa.
Un luogo, uno solo, che rende Milano speciale?
Per me i giardini di via Palestro. Ma è una specialità che nasce per una specie di imprinting nei primi mesi in cui sono arrivato in città. In quel periodo ho vissuto il carcere in una sorta di full immersion per cercare di capirne la complessità, i problemi (avevamo circa 2000 detenuti) e rimanevo ore, giorni senza uscirne. Nelle poche ore in cui potevo raggiungevo, in bici, i giardini di via Palestro, dove mi dicevano c’era lo zoo, a passeggiare, a correre. Così per me è diventato un luogo speciale in quel momento. E tale è rimasto, per affezione.
Spazio agli affetti: un ricordo personale che la lega a questa città?
Il conferimento dell’Ambrogino d’oro nel 2000. Mi lasciò commosso. Dentro di me ero rimasto il ragazzino che giocava a piedi scalzi nei vicoli di un paesino del napoletano.
Un piatto della cucina milanese assolutamente da assaggiare?
Su questo non ho dubbi: il risotto con l’ossobuco.
Sfatiamo una leggenda? Milàn l’è un gran Milàn?
Per me affettivamente (rimango un romantico) lo è sempre. Ma temo che in giro il giudizio sia un po’ più severo. Quelle caratteristiche comuni che facevano di Milano, do un giudizio soggettivo, una città “diversa” sembrano un po’ perse, dimenticate. E con esse si è appannata quella cultura identitaria che aveva fatto di Milano una città accogliente, democratica, attiva, che pareva capace di offrire un’occasione a tutti.
In una parola sola: Milano è…?
La vedo un po’ confusa.
Luigi Pagano
Napoletano, storico direttore del carcere di San Vittore e di quello di Bollate, dove ha messo in pratica la propria filosofia
di umanizzazione dei luoghi di reclusione, Luigi Pagano ha diretto le carceri di Pianosa, Nuoro, Asinara, Piacenza, Brescia e Taranto.
È stato, fra l’altro, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia, Vicecapo e poi reggente capo del Dipartimento
Amministrazione penitenziaria, Provveditore per il Piemonte, Val d’Aosta e Liguria. Nel 2017 è tornato in Lombardia come provveditore
e dal 2019 è in pensione. A San Vittore ha realizzato il progetto “La Nave” per detenuti tossicodipendenti, avviando anche la custodia
attenuata per le madri detenute. Durante Expo 2015 ha avviato al lavoro cento detenuti. A Bollate ha ideato e avviato il progetto
di Custodia attenuata. L’ultimo suo libro è “Il Direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere”, Zolfo editore.
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