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LA MILANO DI CARLO VERDELLI
"CITTÀ PER SOLI RICCHI
NON TI RICONOSCO PIÙ"





di Fabio Zanchi

Quel giorno del 2006 Carlo Verdelli cacciò tutti fuori dalla stanza. Troppe voci, troppi pareri. Troppo poco il tempo. Le rotative della ‘Gazzetta’ dovevano girare. L’Italia era diventata campione del mondo e lui, il direttore, doveva pensare a un titolo. “Al” titolo. ‘Campioni del mondo’ urlato tre volte, troppo banale. Troppo scontato.

Guardò fuori dalla finestra: in via San Marco la gente stava uscendo di casa per festeggiare. Nel giro di pochi minuti la folla aumentò. Caroselli di auto cominciarono a intasare le strade. Tutti pazzi di gioia per la Nazionale. Dopo la festa, che cosa avrebbe provato, quella gente? Quale sarebbe stato il primo pensiero, al risveglio? Avrebbe creduto di aver sognato? Eccolo il titolo: “Tutto vero!”. Due parole. Urlate in due milioni e trecentomila copie.

Carlo Verdelli è così. Le parole non le spreca. E gliene bastano otto per descrivere il suo rapporto con Milano. “La mia Milano è in bianco e nero”.

Perchè?

Per la nebbia. Io sono nato a Quarto Oggiaro. Stavo in una casa che aveva un piccolo cortile. C’erano giorni in cui per la nebbia dalla mia finestra non vedevi il portone… Ora quella nebbia incredibile, il nebbiùn, è sparita. Come la vita in bianco e nero. Come la città che conoscevo.

(Quarto Oggiaro)

Un simbolo di quella Milano?

La Torre Velasca. Io sono del ’57, l’anno in cui hanno alzato la Torre. Come Aureliano Buendia di Márquez ricordava quando il padre lo condusse per la prima volta a conoscere il ghiaccio, ecco: io la Torre Velasca l’avrò vista a quindici anni.

L'hai mai lasciata la città?

A Milano sono nato, cresciuto e poi ho sempre lavorato e vissuto tranne due periodi in cui sono stato a Roma, un anno e qualcosa, prima alla Rai e poi a ‘Repubblica’. Di Milano sono i miei due genitori come tutti i miei quattro nonni. Una famiglia di cui si perdono le ascendenze. In casa mia si parlava il milanese. Con i miei nonni si parlava in milanese. Il milanese era “la” lingua. Ora invece è una lingua morta.

Torre Velasca
(La Torre Velasca)

Altri tempi...

Certo. C’era il fascino della nebbia, c’erano le fabbriche, sia davanti a casa sia alle nostre spalle. C’erano gli operai che andavano a lavorare all’Alfa Romeo. Era una città operaia nella cintura, laboriosa, rispettosa, con un sacco di negozi e negozietti. E poi c’era la Milano dei ricchi. Per la Milano di qua, quella della periferia, andare in centro era quasi una cerimonia. Mi ricordo che mio padre per portarmici si vestiva bene. Un assaggio di centro c’era già in via Mac Mahon e in via Paolo Sarpi. Già a quel punto percepivi qualcosa del grande motore che c‘era sotto la città, lo sentivi anche se tu non eri di lì.

Cos’era che teneva insieme queste diverse realtà, se c’era?

luca crovi
(Carlo Verdelli)

Oltre al bianco e nero, l’appartenenza e la lingua. Milano aveva una lingua che era appunto il milanese. Si parlava correntemente nei negozi, nelle scuole: lo parlavano i bambini, i ragazzi. Sembra una storia di cent’anni fa, invece ne sono passati solo sessanta.

In questo arco di tempo cos’è accaduto?

Milano era una città semplice: c’erano una periferia appunto, una cintura di protezione e il centro. Il centro era il Duomo, sostanzialmente. Il cambiamento comincia con Albertini e la Moratti. Dagli anni della Moratti - poi Pisapia subisce questa trasformazione però in qualche modo non può farne a meno - Milano decide di diventare un’altra cosa. Così nasce City Life, che è un quartiere con i grattacieli, viene rifatta completamente la zona delle ex Varesine, all’Isola, area povera dove c’era il luna park. Adesso è un quartiere residenziale, con piazza Gae Aulenti, il Bosco verticale. Milano è diventata policentrica. Ma le differenze restano. Prima la differenza periferia-centro era più sentimentale, culturale: noi classe proletaria, diciamo così, se si può usare ancora questo termine senza essere accusati di blasfemia, avevamo ben chiara la distinzione tra le diverse zone di appartenenza. Quando andavamo in centro ci andavamo in punta di piedi, come uno che entra in salotto. Adesso è diverso. La periferia è diventata tante periferie, i centri sono diventati tanti. La periferia è diventata più rabbiosa, i giovani sono diversi, non c’è nessuna connotazione politica, che invece nei tempi della mia gioventù c’era eccome. Però ci sono i lupi.

I lupi?

Il sabato sera, o la domenica sera, scendono i lupi ed entrano nella città. La città li accoglie, i ragazzi si ubriacano fino a sfarsi… Milano di notte diventa sconcia, ci vuole un gran lavoro per ripulirla. Certo, non succede solo qui... Fra tante, c’è una cosa che mi colpisce moltissimo: al di là della retorica, Milano aveva un vissuto da città buona, la città cunt el coeur in màn, la città accogliente. Adesso invece punta tutto sulla rivitalizzazione commerciale. A cominciare dai Navigli: un altro posto dove andare a mangiare, andare a bere, spendere soldi. Milano si è allargata, ha allargato i suoi centri, ha moltiplicato i luoghi di interesse e di ritrovo, però è diventata una città per pochi, tant’è vero che un giovane su quattro la lascia perché non riesce a viverci. Gli affitti sono troppo cari. Chi prende casa a Milano deve avere una disponibilità economica fuori dall’ordinario. Questo secondo me è molto preoccupante. Una città così cara, non soltanto nel suo centro ma anche nelle zone che lo circondano, diventa non vivibile per i giovani, per quelli che non hanno un lavoro, per chi ce l’ha precario

Un altro ricordo di ‘quella’ Milano?

Il cinema. Non è che noi non andassimo al cinema, eccome se ci andavamo. Però si andava nelle sale di seconda o di terza visione. Si andava al Volta, al Vox… Al Poliziano ci arrivavi col tram, sette fermate, vedevi il tuo film, ripigliavi il tram e tornavi indietro. C’erano locali come l’Obraz, dove si andava quando si bigiava - invece che a scuola si andava a vedere un film cecoslovacco, per dire. Tutto questo non c’è più. La trasformazione della città è stata strutturale

Nostalgia?

No, la nostalgia non c’entra. Erano tempi ben diversi. I tram, per dire, erano come globuli verdi dentro le arterie della città. Il loro rumore era il rumore di Milano. In questa Milano in bianco e nero che la memoria mi consegna, i tram erano un punto di colore.

(City Life)

Milano non vivibile perché troppo cara. Anche l’arcivescovo Mario Del Pini nel discorso di Sant’Ambrogio ha sottolineato la deriva di una città che “demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili, tagliando fuori giovani, lavoratori e anziani”. Una città che non è più alla portata di tutti.

Purtroppo è una Milano da spendere, questa. O hai la grana, diciamo così, oppure il tuo diritto di cittadinanza si affievolisce, diventa più impalpabile. La mia Milano invece, in una immagine che mi porterò dentro fino alla tomba, è la capacità di sognare. Ricordi il film ‘Miracolo a Milano’? E la capacità di sognare è sintetizzata da un caso buffo, ma che rende l’idea: la Montagnetta di San Siro. La città non ha il mare e non ha la montagna. La Montagnetta è una montagnetta ridicola, però è meravigliosa, perché ti dà l’idea di che cos’era Milano. Non abbiamo una montagna, allora ce la costruiamo: con i detriti, con le cose. Andavamo a vederla crescere: Uelà! L’è deventada pussé alta! La nuova anima di Milano, la Montagnetta la spianerebbe.

Qual è questa anima nuova?

L’anima di una metropoli molto più anonima, con caratteristiche più sbiadite, che somiglia a tante altre città. Certo, abbiamo cinque linee della metropolitana, abbiamo servizi che la rendono europea, ma ha fatto uno scatto sociale che le ha fatto perdere identità. Persa la lingua, persa la nebbia, persa la caratteristica dell’accoglienza, ha scelto di essere ‘presidiata di vita’, di stato anche nelle periferie. Negli ultimi vent’anni tutte le energie sembrano essere state riversate nel ridisegnare la città dimenticando le radici che l’avevano fatta crescere a misura d’uomo. Quello che viene considerato un pregio dei suoi cittadini – Milano va di fretta, Milano non perde tempo – ha fatto sì che i vagoni di testa del treno, un Tgv che corre verso l’Europa, si siano staccati dal resto. Io non avevo mai pensato nella vita di lasciare Milano per trasferirmi altrove. Adesso ci abito come abiterei a Varese o come ho abitato a Roma quando ci ho lavorato.

Se fossi il sindaco, su cosa punteresti?

Farei di tutto perché i giovani non fossero costretti a lasciarla. Perché la sanità milanese fosse a disposizione dei cittadini e non andasse in tilt come in un paese calabrese abbandonato da Dio e dallo Stato. Lo trovo intollerabile. Avere rinunciato a questa dimensione umana è una mancanza che pagheranno quelli che la abiteranno. Diventerà una città-ufficio, una città-impresa.

C'è una responsabilità se le cose sono andate così?

Eccome se c’è. La classe dirigente - politica, culturale, intellettuale, civile - se non è stata complice, certamente ha visto del buono in questa trasformazione. Di là da qualsiasi giudizio politico: è stata sradicata la pianta dal terreno dove era cresciuta e diventata vigorosa - città di riferimento per tutto il Paese - per ripiantarla in un suolo artificiale. City life è artificiale. Piazza Gae Aulenti è artificiale. Non esisteva. Sono posti per ricchi, ci sono dentro le guardie giurate. Capisci?

Milano ti è stata amica, lo si capisce da ciò che racconti e dal tuo percorso professionale. Tornerà a esserlo?

Non mi sembra ci sia questa prospettiva. Non lo dico per sfiducia. Ormai la direzione che ha preso è quella. Dalla giunta di Albertini in poi la città ha cambiato binario. Quella Milano di cui abbiamo parlato sarà soltanto un ricordo. Che sbiadirà, come tutti i ricordi. E svanirà, come è svanita la lingua. Perdere la lingua vuol dire perdere l’identità.

(Il presidente Sergio Mattarella riceve Carlo Verdelli al Quirinale - foto Quirinale)

Ogni volta che si avvicinano le elezioni, si sente parlare della necessità di dar voce alle periferie. Come si fa?

Non mi pare ci sia nessunissima intenzione. Né a livello centrale, né a livello metropolitano o regionale. Le periferie non le recuperano. Le blindano. Perché non diano fastidio. Per contenerne il disagio. A occuparsi seriamente delle periferie e dei periferici, di chi le abita, sono soltanto le organizzazioni del terzo settore. Che sono la supplenza dello Stato.

È un limite di chi governa, o una scelta consapevole?

Secondo me è una scelta. La stessa scelta che a livello centrale è stata fatta per l’istruzione pubblica, per la sanità pubblica. È stato tradito a livello nazionale il patto costituzionale. Noi ci siamo dati un ordinamento che prevede che tu lavori, però mi dai la metà di ciò che guadagni. In cambio di questa metà che mi dai attraverso le tasse, io ti do la scuola, la sanità gratuita, le strade, la sicurezza. Non è pochissimo. In America è diverso: non ti chiedo niente, ti arrangi. Questo patto, per molti decenni, ha avuto un’applicazione percepibile, tanto da far diventare Milano un punto di attrazione nel quale si andava se si aveva un problema. Le periferie, come quella dove sono nato io, erano delle comunità. Ci si dava una mano. Ricordo che una volta parlavo con la Camusso, segretaria della Cgil. Aveva appena fatto un giro tra gli operai, in 500 fabbriche. Mi diceva: ‘Non è la rabbia sociale il problema, è la solitudine’. Aveva perfettamente ragione. Ecco: Milano è una città con un centro effervescente con i fuochi d’artificio, e una cintura intorno abitata da tanta solitudine. E questo secondo me è un peccato, perché non era così.

Sintesi amara. C’è spazio per una parola di speranza?

Difficile. A furia di togliere anima, alla fine poi, una volta che ne hai bisogno, non è che ricompare a richiesta. Non sono ottimista. Milano è diventata un grande Castello Sforzesco con i ponti levatoi fintamente aperti. In realtà, per varcare la soglia devi avere un lasciapassare. E questo è rappresentato dal tuo reddito. O come, per finire, una Torre Velasca, che è un grattacielo chiuso, arcigno, non un grattacielo accessibile. Molto diverso il Bosco verticale di Boeri, che però è un wishful thinking. Milano ha rinunciato all’opzione di essere una città che fiorisce e che cura la manutenzione dei suoi fiori, compresi quelli che stanno lontano dal centro del campo. Ha scelto di stare chiusa nelle roccaforti, e io fatico a riconoscerla.





Carlo Verdelli

CARLO VERDELLI, milanese da generazioni, ha iniziato la sua carriera nella redazione milanese di 'Repubblica', poi è stato assunto dalla Mondadori e ha lavorato a 'Duepiù' e a 'Panorama Mese'. Nel 1986 è entrato a 'Epoca', di cui è stato anche vicedirettore. Nel 1994 è stato chiamato a dirigere il settimanale 'Sette' del 'Corriere della Sera' per poi passare alla vicedirezione del quotidiano. Dal 2004 al 2006 ha diretto 'Vanity Fair' e dal 2006 al 2010 la 'Gazzetta dello Sport', quotidiano che sotto la sua direzione ha riscosso grandi successi di vendite ed è diventato popolare. Ha collaborato con 'Repubblica'  dal 2013 al 2015, e dal 2015 al 2017 è stato Direttore editoriale  per l’offerta informativa della RAI. Dal 2019 al 2020 ha diretto 'Repubblica'. Dall’inizio di febbraio del 2022 dirige il settimanale 'Oggi'. Il 21 dicembre 2015 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha insignito dell’onorificenza di Ufficiale al merito della Repubblica italiana. Ha pubblicato: 'I sogni belli non si ricordano' (2014), 'Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la RAI' (2019) e 'Acido' (2021).



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