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ISCHIA / 2
LA COPPA
DI NESTORE
E QUEI VERSI
DELL'ILIADE...

di ANGELO MASCOLO

Mi accorgo che è lì ad aspettarmi fin dall’ingresso. Per raggiungerla ho attraversato Ischia da un estremo all’altro: dall’isola più verde e inaccessibile a quella più placida, sospesa tra la collinetta di Casamicciola e Lacco Ameno. Sullo sfondo i rumori convulsi di Ischia Porto con gli arrivi ininterrotti di aliscafi e turisti.

Il museo che ospita questa meraviglia di cui tra poco vi parlo è quello archeologico di Pithecussai. La sede è l’austera ed elegante Villa Arbusto, nel comune di Lacco Ameno. La sensazione di trovarmi in un luogo unico diventa concreta non appena metto piede nel lungo corridoio panoramico. Da una parte il mare, dai toni ancora più blu a causa del grecale che oggi spira dal porto, dall’altra colonne bianche e tornite che abbracciano i rami di un pergolato che emana profumi di ogni tipo. Distinguo una nota di gelsomino e salvia; poi rosmarino e i pomodori coltivati nei terrazzamenti sottostanti. E infine la presenza più suadente: l’aroma dei vigneti sparsi tra le colline circostanti e le pendici del monte Epomeo che da qui sembra meno minaccioso con i suoi quasi 800 metri sopra il livello del mare.


(La coppa di Nestore)


Sono in fila. Il mio turno è dopo un gruppetto di americani che sembrano avere l’aria di chi non sa bene in che posto si trova. In realtà, vorrei spiegare con il mio zoppicante inglese, ci troviamo in uno degli epicentri della cultura occidentale. Infatti è proprio qui, in quest’isola così verde e tellurica, che più di tremila anni fa le prime genti greche fondarono quello che ad oggi resta il più antico stanziamento ellenico in Occidente. Forse non una colonia, nel senso di una comunità politica giuridicamente ben strutturata, ma di sicuro un emporio che intratteneva relazioni culturali con fenici e genti autoctone. Furono quelle stesse genti a dare all’isola il nome riportato nell’intitolazione del museo: Pithecussai. Isola delle scimmie. In realtà le scimmie non c’entrano nulla. Quasi sicuramente invece questo nome così singolare deriverebbe, grazie alla testimonianza di Plinio, da pythos e cioè anfora, una teoria suffragata dal ritrovamento sull’isola di ceramiche di origine greco-italica.


(Il Museo archeologico di Pithecussai)


La fila lentamente si sfoltisce ed eccomi finalmente. Sebbene abbia studiato archeologia, e fin da piccolo mi sia appassionato alla storia antica, soltanto oggi mi imbatto nella Coppa di Nestore. È il pezzo pregiato del museo ischitano. Ogni anno migliaia di turisti affollano Ischia (anche) per lei. Non solo per fanghi o la tintarella. È uno dei reperti più commoventi d’Occidente. È una piccola tazza, parte del corredo funerario di un bambino di dieci anni, e fu rinvenuta nel 1955 nel corso degli scavi nella necropoli di Lacco Ameno. C’è qualcosa che non riesco a controllare appena la vedo. Non è soltanto l’emozione della prima volta. Mi sudano le mani e un brivido freddo mi attraversa la schiena. Eppure, mi chiedo, ci sono reperti ben più "appariscenti", che rapiscono lo sguardo in maniera più efficace. In fondo questa coppa è un pezzo di argilla che soltanto in qualche punto ha conservato tracce dell’antica pittura.

No, mi dico. La mia emozione ha un’altra radice. E capisco tutto quando leggo i pochi versi, resti di un epigramma, che sono riportati su un lato del reperto. Di fronte a me non solo la testimonianza più antica di scrittura alfabetica del mondo occidentale ma anche e soprattutto la prima "citazione" diretta dell’Iliade. Infatti i versetti fanno riferimento alla Coppa dell’eroe omerico Nestore che Omero descrive nell’XI libro dell’Iliade. Secondo il racconto dell’aedo era così grande e pesante che per spostarla bisognava ricorrere alla forza di ben quattro uomini.


(Villa Arbusto)


Gli studiosi datano la Coppa di Nestore agli ultimi venticinque anni dell’VIII sec. a.C. Un’epoca remota e lontanissima eppure già culla di due delle invenzioni più straordinarie partorite dall’Occidente: l’alfabeto, con chiare influenze fenicie, e la prima opera di letteratura. Quell’Iliade di cui la coppa costituisce un terminus ante quem. Il fatto che i versi omerici si trovano riportati su un reperto del 725 a.C. significa una cosa sola: la stesura del poema omerico è antecedente, rendendo dunque l’opera ancora più antica. Questo piccolo oggetto mi spalanca l’anima. Le voci di una civiltà antica e ricca mi arrivano come sussulti e grida di battaglie. Mi parla Nestore, re di Pilo, e tutti gli eroi omerici. Mi parla Odisseo, e il suo mare da navigare, l’altezzoso Agamennone e il troppo generoso Achille. Ma soprattutto mi parlano le migliaia di uomini comuni. Soldati e mercanti, coloni e viaggiatori che hanno saputo trasformare la paura dell’ignoto in un luogo di incontro e civiltà. Il risultato di quell’azzardo è il mondo magnogreco. Da Ischia allo Stretto di Messina, passando per le coste calabre e la Sicilia.

Uscendo dal museo una zampata di grecale mi assale. Il mio sguardo, per metà ancora incantato, trasfigura ogni cosa. La prima immagine a fissarsi nella mente è il mare cobalto zeppo di vele bianchi e scafi. E per un secondo non riesco a vedere turisti o diportisti ma soltanto le concavi nave achee tornate sane e salve da Troia.

(Continua/2)

(Leggi la prima puntata)

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