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DEPARDIEU
UN MAIGRET
CREPUSCOLARE

di ANDREA ALOI

 

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Un altro detective gira in sala in queste settimane, addirittura un classico. “Maigret” di Patrice Leconte si aggiunge a una filmografia sterminata ed è tratto con molta libertà da “Maigret e la giovane morta” (1954) del prolifico Simenon. Gli conferisce venature crepuscolari assai e mite imponenza un Gerard Depardieu - di suo gran lettore del belga - perfetto. Jules Maigret è avanti con gli anni, non ha appetito (!), il medico gli ha sconsigliato la pipa e l’umore vira allo scuro. Pensieri, pensieri.

Ecco servito un altro poliziotto che del Male, in ogni gradazione e colore possibile, si è fatto una scorpacciata e non lo digerisce più. Parigi, anni Cinquanta, nell’elegante, centrale IX arrondissement viene rinvenuta una giovane esanime, il corpo trafitto da diverse coltellate. Indossa un vestito da sera. E, così distesa all’alba sul selciato, rappresenta l’atto finale della misera solitudine che ha vissuto nella capitale.



Maigret, caracollante armadio, di scarsa parola e mente perennemente in circolo, rimane scosso. La poveretta gli ricorda un’altra giovane trovata nella Senna, agli inizi della carriera, un caso che lo aveva - ci risiamo - ossessionato, in più ha la stessa età dell’amata figlia scomparsa a vent’anni. L’indagine è serrata, il commissario cerca un primo gradino per risalire fino all’identità della morta e ce la fa, l’intuito e il fiuto aggiungono il resto, fino a una fotografia, inutile a tutta prima, ma Maigret sa dar corpo alle ombre.



Louise Louvière arrivata dalla provincia a Parigi in cerca di una svolta, era stata irretita da un’attrice, e dal di lei fidanzato, il nobile Laurent Clermont-Valois, sessualmente usata e abbandonata. Maigret incrocia la giovane Betty (l’espressiva Jade Labeste), pure lei irrequieta, scappata da casa e a caccia dell’occasione della vita a Parigi, se ne serve - con ogni cautela - come esca per giungere alla meta e al contempo la salva, convincendola a tornare a casa. Molti gli svelamenti finali, la meschinità, le debolezze, la miseria morale imperano, la madre del nobile Laurent (Aurore Clément) non è da meno. Maigret mai ride, solo una sera gli accade quando sente nella stanza accanto la moglie chiacchierare amabilmente con Betty, che ha accolto in casa. Risa e cordialità lo trasportano in una lontana epoca felice, quando sua figlia era ancora in vita.



Leconte cadenza bene una storia a ritmi compassati, non trascura alcun particolare dell’indagine, la fa crescere mentre Maigret consuma le suole - forse è questo il segreto del suo famoso “metodo” - in una Parigi scolorita e grigia come l’umore del commissario, gravato da un’assenza sempre meno tollerata. Un biglietto da visita scovato nel cassetto della stanzetta in cui alloggiava la vittima lo porta dall’anziano Kaplan (André Wilms), tappezziere di Vilnius: il vecchio vede in ogni ragazza la propria figlia, tutta la sua famiglia è finita nei lager, si è rotto dentro. Mai una birra, solo un bicchiere di bianco consola ogni tanto il commissario più famoso di Francia: “Ci sono indagini al calvados, questa è un’indagine da bianco”. Qui, con Depardieu, Maigret è lontano dalla brusca assertività, dalla furbizia, dalla inquieta tranquillità di Jean Gabin o dalla bonomia di Gino Cervi, altri interpreti come Pierre Renoir e Charles Laughton (di nuovo lui, il cinema è tessuto di coincidenze) non hanno raggiunto la stessa popolarità, fa eccezione Bruno Cremer, nei panni del commissario per decine e decine di episodi in una serie tv. Depardieu chiude (per ora) la lista dei Maigret sugli schermi con una presenza di rilievo assoluto.






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