In “Siccità”, il touch agrodolce di Paolo Virzì, sempre immanente da “Ferie d’agosto” a “Ovosodo”, da “Tutta la vita davanti” a “Il capitale umano” (film anche venato di nero) a “La pazza gioia”, si conferma a un livello ben sopra la stenta mediocrità di tanta commedia italiana contemporanea: non commedia “all’italiana”. Quell’epoca è lontana e tra gli ultimi fuochi, a metà anni Settanta, impossibile non citare il capolavoro di Scola “C’eravamo tanto amati”, per alcune pieghe narrative, tra impegno politico, disincanto e saliscendi amorosi, accostabile - fatte le debite proporzioni - a “La bella vita”, debutto registico di Virzì nel ’94.
“Siccità” serve in tavola una classica varietà di caratteri e notevoli graffi satirici, complice o inclemente è lo sguardo sulle “maschere” in scena, trafelate, disilluse, generose, stavolta sotto il cielo giallastro e malato di una Roma che vive il terzo anno senza una benefica goccia d’acqua piovana, situazione tosta, estrema, ideale per far campire caratteri e peripezie. “Siccità” è un piatto multisapore, variegato e ripaga il palato con due orette che filano via bene, pur senza picchi stellari, e non poco contano l’eletta schiera in sceneggiatura, con Virzì Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo, e l’agguerrita produzione, che annovera Wildside, Vision Distribution in collaborazione con Sky Italia e Amazon Prime Video, viatico per eccellenti effetti speciali - il povero Tevere a secco, ormai gigante atterrato, ha forte impatto - e un cast pregiato, con Valerio Mastandrea, Silvio Orlando, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi e molti altri.
Film corale si è detto, una delle vene fertili del regista, qui all’opera su una tessitura complessa di storie a intreccio, un “gioco” che rimanda ad “America oggi-Short Cuts” di Robert Altman e a "Magnolia” di Paul Thomas Anderson. Un “gioco” mica tanto facile da reggere. “Siccità” è un estratto concentrato di Italia oggi e di Città Eterna. C’è l’assillo dell’emergenza climatica con la mancanza d’acqua (per molti ma non per tutti, i ricchi sono chiusi nelle loro ben idratate fortezze), la minaccia sempre più paurosa di un’epidemia portata dalle blatte: formicolanti, astute, contagiose, per colpa loro gli ospedali si riempiono di gente che dall’estrema sonnolenza passa al coma e la dottoressa in crisi sentimentale Sara (Claudia Pandolfi) è in trincea.
C’è l’abisso che si apre davanti al commerciante (struggente Max Tortora) che ha perso la clientela e vive in macchina, la vaniloquenza dei social e della tv, autentico luogo della menzogna. E c’è la Roma dura, difficile vissuta in taxi dallo svagato, demolito Loris (Valerio Mastandrea, sul pezzo come sempre), ex marito di Sara che “vede” sui sedili posteriori madre e padre (bel cammeo di Gianni Di Gregorio, presto in sala con “Astolfo”) e dialoga con l’amico presidente del partito di sinistra morto suicida (Andrea Renzi; Virzì coglie uno degli istinti più frequentati dalla gauche italiana, quello autolesionistico). Grande la metropoli, ancora di più per il tenero Antonio (Silvio Orlando, dieci e lode), da una vita detenuto a Rebibbia che per errore viene trasportato fuori dal carcere nel camion della biancheria e si ritrova, annichilito dalla libertà, a trascinare per l’Urbe la sacca d’acqua pregiata (“Guarda che viene da Sondrio”) distribuita dalla Protezione Civile. Pure Antonio, in cerca della figlia Giulia infermiera e incinta (Sara Serraiocco), capiterà all’ospedale di Sara, crocevia del film, prima di rientrare dietro rassicuranti sbarre.
Roma è città onirica, quando il Tevere a secco, insieme a una congerie di rifiuti d’ogni ordine restituisce pezzi del “Colosso di Nerone”, enorme statua in realtà perduta: un soprassalto d’emozione, una visione perturbante che ricorda l’'enorme testa incoronata di Venusia affiorante in Laguna all’inizio e alla fine (per inabissarsi definitivamente) del “Casanova” di Federico Fellini, riecheggiante pure nell’orchestra da concerto in piazza che apre e chiude “Siccità”: “Prova d’orchestra” era un film da collasso sociale globale, ben più scoraggiato di questo, e però sempre di tempi ardui si tratta. La Roma del mito riemerge, la Roma del Terzo Millennio, come quella del Primo e del Secondo, abbraccia, smussa, corrompe e qui Virzì tira fuori le unghie, tratteggiando il veneto professor Del Vecchio (Diego Ribon), luminare dell’idrologia che di buon grado si fa lisciare i riccioloni in sala trucco per comparire in veste di esperto alla televisione, suscitando, così azzimato, la convinta ilarità di moglie e figlia che lo vedono in tivù. Severo nei moniti al risparmio d’acqua, il prof si ammorbidirà sulla terrazza di Valentina (la matronale Monica Bellucci), fino ad accettare un bagno “proibito” in Jacuzzi.
La televisione ha tempi drammaticamente brevi, i conduttori del tg surfano sui luoghi comuni del difficile frangente, si innamorano del personaggio funzionale a una narrazione emotiva degli eventi, nell’occasione un giovane migrante africano (Malich Cissè) portatore di un antico sapere nell’arte di non sciupare la poca acqua a disposizione. Il ragazzo, immune alle seduzioni mediatiche, rimane se stesso. Sogna invece un ritorno in auge l’attore Alfredo (un inedito, bravissimo Tommaso Ragno muscolato e sopra le righe), pensa di aver passato ‘a nuttata quando alcuni suoi post riscuotono un discreto successo, ma i social lo dimenticano lestamente e Alfredo si accontenterà di una parte non di rilievo nel lavoro teatrale diretto da un amico, Massimo Popolizio: i dialoghi tra i due sono gustosi, lo spessore teatrale di entrambi viene fuori. Non meno accidentata la vita della moglie di Alfredo, Mila, (Elena Lietta) finita a far la cassiera alla Coop. Si fugge, si sbraccia, siccità o meno tutto scorre e di penalmente colpevoli in fondo non ce n’è, tranne uno, Valerio (Gabriel Montesi), tamarro in carenza di neuroni e assassino della ricca e insoddisfatta Raffaella Zarate (Emanuela Fanelli). Pochi gli assolti, meglio: gli innocenti, i puri di cuore. Il sipario cala su una benefica pioggia, un sospiro di sollievo senza catarsi, anzi. L’acqua che torna sigilla piuttosto una normalità infelice e inutilmente ansiogena.
“Siccità” ha, per struttura, molte affinità con “Il Giudizio Universale” di De Sica, sceneggiato da Zavattini (1961). A Napoli una stentorea voce dall’alto annuncia l’imminente Rendicontazione Finale per le 18 dello stesso giorno, suscitando pentimenti o scetticismo in una caleidoscopica galleria di tipi, miserabili, nobili, traffichini come l’abietto Alberto Sordi, venditore di bambini poveri da esportare in vista di adozione. Puntuale si scatena un diluvio e il Giudizio comincia, ma presto si conclude, senza ragione. Torna il sole e la commedia umana rimette in scena l’ennesima replica, ia sua brava gente e i suoi legni storti, gli inconsapevoli e i devoti. Che si passi dall’arsura alla pioggia o dal diluvio al sole, per una qualche rinascita si deve comunque aspettare.