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WILD MEN
BUDDY MOVIE
CON MASCHI
E NATURA

di ANDREA ALOI

 

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Gli umani di genere maschile sono molto ma molto incapaci di argomentare su se stessi, compresi i problemi di tutti i tipi, a partire dal “chi sono e cosa voglio” per finire alle frizioni di coppia. Il massiccio Martin, messe tra parentesi la moglie Anne, le due figlie e la bella casetta in Danimarca, una risposta a quel malessere che non va su né giù se l’è data sforando nei boschi della vicina Norvegia. E lì lo troviamo, monumentale, bardato di pellicce, intrinsecamente buffonesco impegnato a fiocinare con arco e frecce una capra selvatica. Bersaglio mancato, si rifà, con violenza spropositata, demolendo un rospo, ben magra cena. “Wild Men, fuga dalla civiltà”, del trentatreenne danese Thomas Daneskov, anche sceneggiatore in tandem con Morten Pape, già dall’incipit - natura selvaggia e poi un brillìo vicino a un torrente - è l’involto di una merendina - garantisce humor affilato e ci mette in sospetto. Non è che mutarsi da bipede urbano sedentario a Rambo cacciatore è un pochino impossibile e, pur nella grandiosità dei panorami garantiti dai fiordi, espone a micidiali magre esistenziali piccolo-borghesi alla Bouvard e Pécuchet, i cialtroneschi pasticcioni di Flaubert?



Martin (un falstaffiano Rasmus Bjerg) è in bilico, da solo dieci giorni è imboscato e già s’immagina di aver ritrovato la sua anima profonda, ma usa lo smartphone e per rifornirsi va al supermercatino nei pressi. Dove pretenderebbe di pagare barattando una sporta di cibarie con l’arco, ipotesi non gradita all’allibito gestore, seguono lotta, fuga e polizia allertata. Che poi polizia è una parola grossa e “all’erta” lasciamo perdere. I tutori dell’ordine in quella landa meravigliosa e sperduta sono tre in tutto, il maturo comandante Øyvind (Bjørn Sundquist, nobile figura del teatro norvegese), onorevolmente sul pezzo e due emeriti giuggioloni, pronti a tutto tranne che agli straordinari, a perdere la cena con arrosto e a fare il loro mestiere. Neve, poliziotti nel placido nulla in cui irrompono fattacci, candido manto e, a breve, effusioni di sangue: fra creature più piccole del loro destino e note di farsa siamo in piena atmosfera “Fargo” dei fratelli Coen.



Mentre la pattuglia è alla ricerca di “un uomo ricoperto di pelli con arco e frecce” s’imbattono in un’auto che si è imbattuta in un’alce. È vuota, conteneva prima del crash tre spacciatori piuttosto carogneschi in viaggio verso il traghetto per la Danimarca con il frutto del loro lavoro, una sacca stracolma di denaro. Musa (Zaki Youssef) è uno di loro, ferito a una gamba se ne è uscito per primo dalle lamiere e, credendo i colleghi defunti, ha preso con sé la preziosa borsa. Impatterà con Martin, sollecito a curarlo, addirittura a cucirgli brutalmente (dire sutura sarebbe francamente troppo) la ferita. E che buddy movie sia, secondo i canoni del transito di una coppia dalla diffidenza alla cooperazione di necessità - Musa una capra per cena l’ammazza, ma con la pistola -, dalla mutua comprensione al reciproco disvelamento. Martin: “Qui nei boschi ho trovato me stesso, sto finalmente bene”. Musa: “Ho un figlio, non l’ho mai visto, oggi è il suo compleanno”. Un viaggio di pochi giorni che darà a entrambi una bella rinfrescata alle sinapsi e il modo di mettere in gioco la vita. Pericoli sono in agguato, i due spacciatori, redivivi benché malconci, uno con la mascella smontata come in un cartoon, si credono a ragione traditi e tireranno per i capelli la Sorte che li ha risparmiati una volta.



Wild Man, braccato ormai da un contingente rafforzato di polizia, verrà raggiunto prima dai ceffoni della moglie Anne (Sofie Gråbøl) e quindi, a peripezia conclusa con l’ormai amico Musa, da un pentimento che suona accettazione di una decente condizione adulta, rinforzata dalle ultime parole del comandante Øyvind, anziano poliziotto indomito che a Martin ricorda il suo amore per la moglie scomparsa e i propri rimpianti, le inutili bizze e le precedenti voglie di solitudine soddisfatte dalle raminghe battute di pesca. Tutte minchionaggini, sussurra il dolente Øyvind, colpito a morte da uno degli spacciatori in una sequenza pre-epilogo che alterna frecce, appostamenti, pallottole da noir puro. Ovvero: viviti la tua tristezza, sei libero di farlo, non a spese di chi ti vuol bene, però. E soprattutto, parlane, accidenti.

“Wild Men, fuga dalla civiltà” è l’opera seconda di Daneskov dopo “The Elite” e gran riscontro ha avuto la serie tv “Joe Tech” da lui creata e diretta, un po’ finto documentario e un po’ commedia basato sulla vita border line dell’eroe eponimo, un ragazzo di ventisei anni che la gravidanza della fidanzata spinge, per rapidi guadagni, a immergersi nella suburra di Copenhagen. Una cifra del regista, in equilibrio tra momenti duri e l’esibizione neutra di una umanità squinternata, ben alimentata pure nella mini-odissea di Martin.



L’uscita del film è stata posticipata in Danimarca dopo la strage con diverse vittime in un negozio di alimentari norvegese, protagonista un danese che aveva usato, per uccidere, anche delle frecce: una drammatica “fotocopia” del Martin impellicciato e armato di arco che campiva sul poster del film. L’arte precorre la realtà; la satira, estremizzandola, ne spreme gli umori più autentici e nascosti. In una intervista a CIneuropa, Daneskov racconta: “Con la mia produttrice Lina Flynt siamo andati in Norvegia per un sopralluogo. Volevamo vedere come opera la polizia locale, ma non siamo riusciti a trovarli! L'ufficio era aperto ogni secondo mercoledì, per due ore”. In uno dei momenti più stuzzicanti del film, Martin e Musa calano a valle e per rifocillarsi entrano in un villaggio vichingo ricostruito a fini turistico-ricreativi da un manipolo di amanti delle antiche saghe e della maschissima, mitica vita degli antichi guerrieri scandinavi. Abbigliati di tutto punto con generose barbe, pelli, elmi cornuti, armi fracassa-ossa, li guida un idiota stentoreo, Henrik (impagabile Rune Temte), omarone di pelo rosso. Martin si gasa a mille, pensa a una comunità dedita alla vera vita boschiva “come una volta”, ma quando gli chiedono di pagare i panini con la carta di credito sbrocca e finisce in rissa, come al supermercato.



Qui si sente un’eco di Kaurismaki, della sua ironia, ma senza gli sbaffi di surrealtà (anche cromatica) del maestro finlandese. Daneskov ha semplicemente portato in scena, con sguardo freddo ed effetto potente, non solo comico, una moda nascente in Scandinavia: “Di villaggi vichinghi così - ha detto - ce ne sono in Svezia e Norvegia, e forse alla fine attecchiranno anche in Danimarca, magari grazie al mio film. Molti vanno a fingere di essere vichinghi per sei mesi, vivono senza internet perché vogliono avere un’esperienza ‘autentica’. A pagamento”.

Daneskov ha il passo giusto, uno sguardo intelligente e ne sentiremo ancora parlare. E poi, una volta imbandita la situazione assurda e/o comica, sa giocare bene coi volti e i silenzi che - ad azione minimale o a camera ferma - teatralmente suggellano, prolungano e rafforzano, quando serve, l’effetto straniante e di serissima farsa. Non è da tutti. Per restare in zona si possono fare i nomi di due sulfurei e premiati registi svedesi, Roy Andersson (”Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” del 2014) e Ruben Östlund (“The Square” del 2017, è in arrivo in sala “Triangle of Sadness”). “Wild Men” è stato distribuito in Italia in dodici cinema, meritava di più, d’altra parte per la sala è alta stagione e fioccano titoli di sicuro richiamo. Forse troppi/tutti insieme? Ci si può salvare in corner tramite streaming.






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