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BARDO
TRA FALSO
E VERO
LE VISIONI
DI IÑÁRRITU

di ANDREA ALOI

Prima scena. L’uomo si fa ombra, corre in un deserto con radi cespugli, si alza in volo, scompare. Nel buddismo il “Bardo” è il passaggio da una esistenza all’altra, uno stato fluttuante, misterico. Fantasie astruse, al limite noiose? Lo spettatore, arrivato a metà proiezione di “Bardo, la cronaca falsa di alcune verità” di Alejandro González Iñárritu può iniziare a consultare l’orologio oppure, col sorriso sull’anima, dirsi: il cinema deve essere così. Così in che senso? Emozionante per vie sottili, appagante per lo sguardo, in bella armonia tra concezione e messa in atto cinematografica, ben recitato, potente. Si può continuare con onirico, conturbante, semplice per certi occhi e inafferrabile per altri o entrambe le cose insieme.

E aggiungere: un film politico, un film “privato” come l’ “8½” di Fellini che rinvia al rapporto tra ego e creazione di “Birdman”, un film d’arte, di strepitoso virtuosismo registico (e fotografico: qui ci ha messo la firma l’iraniano Darius Khondji, che non fa rimpiangere Rodrigo Prieto, storico collaboratore di Iñárritu). Ancora, una cartina di tornasole per la sensibilità di chi lo vede, un reagente per memorie, così che ciascuno ne resterà sedotto o deluso a modo suo, poco o tanto, dipende come nei flipper dalla quantità dei punti di rimbalzo, più ce n’è più si gioca, altrimenti la pallina fila dritta nel buco nero e pace, peccato per i soldi del biglietto.



Dopo il citato “Birdman” e “Revenant” il cinquantanovenne maestro messicano è tornato in patria a girare (su pellicola da 65 mm) una “auto-fiction”, parole sue di quando ha presentato il film a Venezia. Non auto-biografia e però fitte sono le corrispondenze tra la sua lunga esperienza di expat negli Usa, 21 anni di lontananza dalla culla umana e sentimentale, e quella del protagonista Silverio Gama, giornalista e documentarista d’inchiesta che in America ha avuto successo, vinto premi e giusto per riceverne uno in patria ha lasciato la bella casa di Los Angeles ed è tornato a Città del Messico, la valigia colma di rovelli, esitazioni, oscillando tra il piacere di rivedere amati volti e un forte disagio.



Silverio ha dell’America e dei gringos una pessima, sarcastica opinione, hanno combattuto il Messico accaparrandosene belle fette e addirittura Amazon ha comprato la California del Sud (punto esclamativo ma non troppo, le corporation sono più potenti di molti Stati), si comportano da padroni e però gli hanno dato fama e dollari. L’America così benefica e comoda gli pesa, Silverio è più che innamorato della sua terra, ha vissuto lontano, è lacerato. Ha l’età dei bilanci, l’attraversa in una eruzione di sogni, immagini, autoinganni, premonizioni, viaggi nel tempo pennellati dallo sciamano Iñárritu. Nota non a margine:  da dieci anni il regista si dedica alla meditazione e non per nulla ha eletto ad animale totemico del film la salamandra messicana, l’axolotl, prodigioso anfibio considerato una divinità dagli aztechi. “La memoria non ha verità ma solo una certezza emotiva” ha detto Iñárritu, e “il Bardo per i cattolici è un Limbo. Per me è dove questo personaggio vive, dove le idee e i ricordi muoiono, dove le cose si trasformano di continuo. Io sono un uomo senza terra, perché sono messicano per gli americani e americano per i messicani. Ed è una condizione da immigrato, è una posizione molto vulnerabile, una specie di Limbo”.



Dov’è la mia casa? Alejandro si specchia in Silverio. Ma attenti: è una “falsa crónica de unas cuantas verdades”. Daniel Giménez Cacho - ha lavorato con Abel Ferrara, Alfonso Cuarón, Almodovar - incarna Silverio con una ammirevole gamma di registri, lo affianca nel ruolo della moglie Lucia l’argentina Griselda Siciliani, a completare la famiglia al seguito nella full immersion messicana i figli Camila (Ximena Lamadrid) e Lorenzo (Iker Sanchez Solano), giovanotto di cervello vispo amorevolmente conflittuale col padre e puntualissimo nello scorticare le sue contraddizioni. Come se ce ne fosse bisogno.

Silverio trasforma mentalmente in incubo la programmata intervista con Luis Baldivia, antico compagno di giornalismo e conduttore di uno show popolare, si immagina muto al cospetto della platea incalzato da Luis, sempre più perfido e provocatore. Non si presenterà negli studi tv - sognati come una felliniana sarabanda a luci sfacciate gremita di ballerine, con tanto di vedette popputa -, si sente umanamente altrove e Luis (un elettrico, bravissimo Francisco Rubio) glielo rinfaccerà con toni aspri alla festa per il premio con cui il Messico intende onorare un figlio importante, che nuovamente diserterà il palco. In sostanza: “Siamo amici, mi dai buca e non rispondi manco al telefono? Ti ritieni superiore? Già, vivi negli Stati Uniti”, “Sei tu che presenti una inutile, grottesca trasmissione telecomandata dal governo”.



Nella stessa festa un Silverio dal corpo bambino incontra il padre, lo abbraccia, si confessa col genitore, che per  lui ha un lascito importante: “Assaggia il successo, risciacqua la bocca e poi sputalo”.  Hanno appena proiettato uno spezzone del documentario di Gama premiato negli Stati Uniti, dove un capo dei narcos dal ghigno satanico detenuto in America squarcia ogni ipocrisia: “Siamo nella post-miseria, noi abbiamo i milioni, ci mantengono cinquanta milioni di gringos”. Dipendenti da sostanze, naturalmente. Nello straniante Bardo di Iñárritu   tutto può accadere. Pure una lite tra Silverio e il conquistador sterminatore degli Indios Hernán Cortés, coi due in cima a una pila di cadaveri in piazza della Costituzione a Città del Messico. Sono comparse di un film, la tragedia immensa si fa finzione.



E perfino una delle sequenze più forti, con le immagini di una migrazione biblica nel deserto di misere genti verso il miraggio nordamericano, tra venti di sabbia e apparizioni mariane, viene “smontata” della presenza di Silverio documentarista con fonico al seguito. Ancora una volta, la tragedia diventerà spettacolo, merce. La famiglia Gama torna a Los Angeles, dopo aver gettato in acque messicane le ceneri di Mateo, figlio rimpianto vissuto un solo giorno e nel mondo onirico del padre visto mentre, appena nato, chiede di rientrare nel ventre materno. Richiesta esaudita. Appena arrivato, un dilaniato Silverio, in mano un sacchetto di plastica con tre axolotl, ha un infarto mentre si fa un giro in metropolitana. Il sacchetto finisce a terra, le salamandre moriranno, in una terra dove non c’è spazio per il sacro. Ed è l’ultimo Bardo, Silverio è in coma. Se ne sta andando, cammina in una plaga deserta e discosti lo accompagnano la moglie e i due figli in una atmosfera sospesa di “mondo altro” che riunisce gli affetti di carne e sangue e tanto evoca una mistica scena di “The tree of life” di Malick.



Ultima scena. L’uomo si fa ombra, corre in un deserto con radi cespugli, si alza in volo, scompare. “Bardo, la cronaca falsa di alcune verità” è distribuito da Lucky Red in una manciata di sale. Prodotto da Netflix, sarà da metà dicembre sull’onnivora piattaforma digitale.

 

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