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di
ANDREA ALOI
“Bones and All”, più o meno “fino all’osso”. Che poi secondo alcuni cannibali del film, come sempre magistralmente governato da Luca Guadagnino, sgranocchiarsi pure le ossa è il massimo. Orrendo solo a pensarci e invece il regista cinquantunenne ha realizzato un piccolo miracolo, un viaggio di formazione e consapevolezza per le strade d’America negli anni Ottanta che senza risparmiare sbranamenti e volti segnati dal sangue del “fiero pasto” restituisce a due teen agers cannibali tutti i classicissimi turbamenti di quell’età di mezzo fra tarda adolescenza e primi semi di consapevolezza. Diversità estrema che viola uno dei nostri tabù più sacri da un lato e sentimenti compiutamente umani dall’altro: condizioni parallele da cui la storia esce emozionalmente arricchita. Maren, la dolcissima Taylor Russel, e Lee, un Timothée Chalamet maturo e vibrante, ormai lontano dall’Elio tenerello di “Chiamami col tuo nome” (2017) che lo aveva portato alla ribalta del cinema mondiale, vivono da ragazzi cresciuti in famiglie sconnesse un amore straordinariamente normale, nonostante quell’appetito innominabile che li domina fin dalla nascita insidiandone ogni ipotesi di pace interiore. “Per un po’ vorrei vivere come tutti” dice Maren, intendendo sfuggire a quel trivio secondo Lee ineluttabile: “Quando si è come noi o mangi o ti ammazzi o finisci in manicomio”. La massima separatezza dal corpo sociale s’instaura nella massima appropriazione dei corpi-cibo individuali.
Qualsiasi paragone con altri film “cannibaleschi” che non si appigli solo alle suggestioni della violenza ad alto tasso di emoglobina fatica a reggere, perché i protagonisti e i loro colleghi di banchetto che incontriamo sono tutti più o meno drop out, ma - ecco lo scarto di “Bones and All”, sceneggiato da David Kajganich e tratto dall’omonimo romanzo della statunitense Camille DeAngelis - non sono diventati antropofagi ribelli perché erano degli emarginati, sono diventati emarginati perché antropofagi dalla nascita, Maren per via materna, Lee paterna. Un puro destino tragico. Sì, un senso di pascimento lo provano ma nulla di simile ai vampireggiamenti e ai morsi di "Cannibal Love - Mangiata viva” (2001) della veneranda Claire Denis, dove la pulsione divoratrice si accosta al sesso, al piacere e destabilizza, inquieta (e lasciamo perdere “I Cannibali” di Liliana Cavani, un’Antigone sofoclea nel post 68 milanese). In “Bones and All” saziarsi di una donna anziana appena morta, come fa Maren - in compagnia del nativo americano Sully che l’ha riconosciuta come sodale sentendone l’odore proprio dei mangiatori di carne umana - è una necessità inscritta nel dna. Non è una malmostosa aristocratica della devianza come l’Hannibal Lecter di Anthony Hopkins che, ascoltando le Variazioni Goldberg, pasteggia a fegato umano accompagnato da un bel bicchiere di Chianti, è una ragazza colma di tormento per la sua natura. E ha un’etica. Infatti criticherà Lee - provvidenzialmente incontrato dopo Sully - quando taglierà la gola a un uomo-preda attirato in una trappola sessuale, ignorando che avesse moglie e figli piccoli. Non si fa.
Il cannibale non è immorale né amorale. Ad esempio Sully (l’inglese Mark Rylance, da brividi in ogni senso) per principio non mangia i suoi simili, mantiene appena un residuo ancestrale di caccia tribale: ha legato in un’unica treccia solida come corda a mo’ di trofeo gli scalpi a pelo lungo degli uomini e delle donne che una volta defunti gli hanno fornito abbondanti pranzi e cene. Alle ciocche d’inizio film se ne aggiungerà nel finale una bionda… Poco politically correct è invece Jake (Mike Stuhlbarg, mammia mia che bravo e che impressione), non controlla il suo dáimōn speziato di sadismo orale e i due giovani gli sfuggiranno per un pelo dopo una tranquilla notte en plein air davanti al fuoco. Cannibali o no, andare a spasso per l’America se sembra garantire libertà, riserva sorprese non sempre piacevoli. Il viaggio di Maren è iniziato per forza. Addentata scandalosamente la falange di un’amica durante una seratina, se n’è dovuta scappare, provvista appena di qualche dollaro del complice padre Frank (André Holland) che ben conosce la natura della figlia fin da quando aveva dilaniato e sbocconcellato la baby sitter. Non ha mai conosciuto la cannibalesca madre Janelle (Chloë Sevigny), riuscirà a trovarla in una sperduta casa di cura: una scena da capelli ritti davanti all’abisso dell’alienazione. Sbarre, psicofarmaci e una pulsione che non si può estinguere. Brutto affare.
A Lee toccherà fare i conti col fantasma del padre violento, un rapporto risolto in passato per via antropofagica ma non superato nell’inconscio. I nodi si scioglieranno parlandone a Maren. Che sia giunto il momento della famosa vita normale (o quasi)? Sully, da stalker indomito, si metterà di traverso, non dimenticando che lui e Maren “si sono nutriti insieme”. Un patto di sangue, ossa, carne nato nella sua capa ma che vuole sia rispettato: tutto molto negli abituali canoni del maschio violento. E dire che sembrava un cannibale così perbene. Forse, superficiali parentele granguignolesche a parte, “Bones and All” evoca “Titane” di Julia Ducournau, non tanto per la pulsione omicida legata al desiderio sessuale di Alexia, ragazza con placca di titanio in testa causa incidente stradale, ormai un cyborg che copula con un’auto restandone incinta, ma per la sua estraneità al mondo dopo la fuga, il dissimularsi in abiti maschili per demolire un’identità sofferta, la ricerca di un padre sostitutivo dell’anaffettivo genitore, la “plausibilità” umana di un percorso senza margini di riscatto.
I 130 fluidi minuti di “Bones and All” sono stati girati a Cincinnati ed è il primo film di Guadagnino interamente “americano”. Arricchito dalla colonna sonora dei premi Oscar Trent Reznor e Atticus Ross e da una track list con Duran Duran, Joy Division e i Kiss del trascinante “Lick it up”, è stato presentato a Venezia 2022, dove ha vinto il Leone d’Argento per la regia e un altrettanto meritato Premio Mastroianni come migliore attrice esordiente è andato a Taylor Russel, che se la gioca alla pari con l’espressivo Timothée. Due magnetiche facce da cinema. Esce in Italia con Vision Distribution, tra i produttori lo stesso regista e Chalamet, divo divissimo, per chi si ricorda il suo furbo drappeggio androgino sul tappeto rosso del festival.
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