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di
ANDREA ALOI
Un noir romantico, impudente al punto di essere a tratti quasi buffo, l’anatomia di un amore sfiorato e non vissuto, un poliziotto “annientato” - per sua stessa ammissione - da una giovane donna seduttiva e mortifera perché “uccidere è come fumare, è difficile solo la prima volta”. Con “Decision to leave” (decisione di partire, di lasciare), 138 minuti di puro cinema, il cinquantanovenne coreano Park Chan-wook ha sposato versatilità di toni, ispirazione, scrittura (è co-sceneggiatore con Chung Seo-kyung) e alta maturità tecnica come mai gli era riuscito prima.
"Joint Security Area” (2000), ambientato nella terra di nessuno fra le due Coree, aveva rivelato la sua abilità nel miscelare thrilling, obliqui misteri e azione, “Old Boy” (2003), la prova di maggior successo nella “trilogia della vendetta”, premio per la miglior regia a Cannes e omaggiato da un remake di Spike Lee nel 2013, lo aveva consacrato in virtù di una tenuta strepitosa per tensione e colpi di scena, ben oltre l’etichetta di revenge movie. Un film tarantineggiante (ma si potrebbe dire che il regista del Tennessee si è ispirato a Park Chan-wook) tratto da un manga omonimo, con tanto di stupefacenti agnizioni, colluttazioni assortite e un’estrazione dentale dove più che estratti i denti vengono divelti dal vecchio-giovane Oh Dae-su, la cui foga vendicativa diviene parte della punizione (quindici anni di reclusione) che aveva patito. Il vendicatore diventa bersaglio di vendetta, l’ira possiede un’inerzia fatale e fa pensare all’ultimo “capitolo” di “Seven” (1995), il thriller di David Finch con Brad Pitt. Nulla è come sembra, tutto è mutevole e per tenere a dovere le briglia di storie così serve una sceneggiatura di ferro, ancora più minuziosamente calibrata per film come “Decision to leave”.
Qui l’azione si stempera su un passo più introspettivo, il climax frenetico dei duelli manga style lascia il posto ad acque relativamente più calme, anche se sotto la superficie dell’oceano le correnti travolgono: gli eccessi sono emotivi, non fisici. È cinema degno dei più classici noir? Sì convinto.
Busan, grande città portuale. Hae-Jun detective insonne (un espressivo Park Hae-il) indaga col giovane impulsivo collega Soo-wan (Go Kyung-pyo) sulla morte di un ufficiale dell’emigrazione in pensione, precipitato da una rupe che aveva appena scalato. Ki Do Soo (Yoo Seung-mok) pare alzasse le mani sulla giovane moglie Seo Rae (Tang Wei, perfetta) emigrata dalla Cina e premurosa badante di vecchiette. Insomma, affiora qualche sospetto su di lei. Possibile, così tenera e cerbiattesca? Hae-Jun se ne invaghisce all’istante, del resto la fanciulla è uno scrigno di segreti, viene da un Altrove, parla un coreano incerto e nulla attrae più di una donna misteriosa.
Seo Rae non ha l’allure torbida e venata di malvagità di Barbara Stanwyck nella “Fiamma del peccato”, non porta sensuali braccialetti alle caviglie, comunque gli uomini sa egualmente giocarseli. Però stavolta offre il suo lato debole: prova a innamorarsi del poliziotto e ci riesce, facendosi, si vedrà alla fine, molto male. Hae-Jun è cotto ma segugio di razza e ne scopre la colpevolezza (per non spoilerare diciamo solo che ci son di mezzo una telecamera di sorveglianza, due smartphone e una cifra, 138, identica ai minuti del film, che indica il numero di scale salite). Niente carcere, non la mette ai ferri perché l’ama. Jung-An (Lee Jung-hyun), la moglie di Hae-Jun, è lontana, lavora nella centrale nucleare di Ipo, si vedono il giusto, il rapporto si è affievolito e il sesso, che lei programma come una medicina per la vita coniugale, non basta. Il matrimonio è destinato a spegnere la passione, mentre il detective con Seo Rae prova un nuovo desiderio di amare, di sentirsi più vivo. Si frequentano brevemente, sgorga tra loro dolcezza, addirittura l’insonne Hae-Jun sintonizzandosi sul respiro della ragazza dorme come un angioletto.
I due si rivedranno tempo dopo a Ipo, Hae-Jun si è trasferito, sta accanto alla moglie ma ormai solo per abitudine. Seo Rae ha un nuovo, volgarotto marito, finanziere in pessime acque, che puntualmente ci lascia le penne e pure in questo caso lei ci metterà un nero zampino, innescando una diabolica carambola esiziale per il coniuge che comprende un amico violento e truffato dal marito, l’eutanasia-omicidio della madre del manesco (Seo Rae è un’esperta, già ha accelerato la dipartita di sua madre con una micidiale dose di Fentanyl) e un’arietta di timidezza stralunata che confonde. Si apre un’autostrada verso un finale che sancirà nel modo più crudo l’impossibilità dell’amore tra Hae-Jun, nel frattempo mollato dalla moglie, e Seo Rae. Si sono inceppati in un “gioco” di avvicinamenti e di distanze, di parole non dette o non capite (essendo cinese, lei si affida al traduttore automatico del cellulare), appesi a un 'non ancora' destinato a trasformarsi in un 'mai', il poliziotto e la donna dei misteri non credono a niente e credono a tutto, lei si aggrappa a una dichiarazione affettuosa del detective, lui le chiede: “Quand'è che ti ho detto che ti amo?”.
“Decision to leave” è un film palesemente hitchcockiano, con Hae-Jun, mago degli appostamenti, che spia Seo Rae che lo scruta a sua volta col binocolo, a cercare qualcosa che da vicino sfugge; una affascinante, quasi fantasmatica presenza femminile per una volta capace di amare davvero, una donna che ha vissuto non due volte, di più; una serie di vertigini visive portate all’acme nella salita alla rupe, in cui si esalta il lussuoso montaggio di Kim Sang-beom. Lo sguardo ironico del regista mena le danze in sequenze splendide, vedi l’inseguimento sui tetti di Busan con Hae-Jun che, disarmato finalmente un criminale incallito, ci discute su amori mancati e donne che li respingono. E non c’è praticamente scena senza un gioiello, un gioco di riprese che nascondono e svelano passando senza cesure da un tempo presente a un flashback, piani sequenza ben dosati, virtuosismi pieni di senso narrativo, l’ intrusione di soggettive folli: di un cadavere, di un pesce altrettanto morto e di uno smartphone, come a dire “tutto è sguardo”, altro non conta e, soprattutto, si vede bene solo da lontano, anzi lontanissimo. Non per nulla Park Chan-wook ha scelto di girare con un rapporto (2,39:1) che amplia lo spettro visivo e regala immersività, col contributo delle musiche di Jo Yeong-wook, presente nei più importanti lavoro del regista coreano, e di alcune suggestioni mahleriane.
“Decision to leave” ha vinto a Cannes il premio per la migliore regia, distribuiscono Lucky Red e Bim Distribution.
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