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DELTA
FAR EAST PADANO
FRA ARGINI
E BANDITI

di ANDREA ALOI

Laggiù hanno il Far West, noi ci difendiamo bene col Far East del Delta padano. Orizzonti lontani, confini labili tra acqua e terra, fuorilegge e “sceriffi”, diffidenza verso i foresti. Un’Arizona con in più le Everglades, formidabili paludi della Florida dove si tuffava impavido Gary Cooper in “Tamburi lontani” di Raoul Walsh. D’accordo, nei rami del grande fiume tra mille strade ora torbide ora trasparenti, dal Po di Goro al Po di Volano, dal Po di Ferrara al Po di Primaro, non vi aspettano, con tutta la pazienza del mondo, alligatori a sfioro, ma i pesci siluro si fanno comunque rispettare, insieme a lucci e carpe.



Sono argini, casoni di pesca, golene di un porto franco per mille tane pieds dans l’eau, un posto dove da secoli ci si rifugia e si duella tra contrabbandieri e sbirri, pescatori di frodo e guardie. Succedeva negli anni Cinquanta e prima ancora coi fiocinini, predoni per necessità di pancia delle preziose anguille, capita oggi in “Delta”, secondo lungometraggio del trentaseienne Michele Vannucci, un palpitante noir brillantemente confezionato secondo tutti i crismi del genere e abbondanza di suggestioni visive. Sono 105 minuti immersi, letteralmente, lì dove il grande fiume si mescola all’Adriatico, Legge e Ordine hanno contorni offuscati e la gente ha spigoli contundenti perché la vita è duretta. Il Delta è un non-luogo nel senso che non appartiene a nessuno e appartiene a tutti. Poi, quel cielo così alto incuba solitudini senza rimedio.



E di solitudine teorico-pratica i due protagonisti assoluti, l’ispido Elia (Alessandro Borghi) - nativo della valle finito chissà come a vivere in Romania con la famiglia Florian, da poco ritornato a pescare di frodo con tutto il parentado acquisito - e la guardia ecologica Osso (Luigi Lo Cascio), sono più che esperti. Il destino è pronto a spremerli, lo spettatore se ne gioverà alquanto.

Osso pattuglia il territorio con l’irrequieta sorella Nina (Greta Esposito), è un tipo mai sopra le righe, perfino politically correct quando seda nel bar-ristorante del posto i malumori dei pescatori, aizzati dal più facinoroso (Denis Fasolo). C’è malumore, intinto in una scura vena di razzismo, un gruppo di bracconieri rumeni cala in golena dei bastoni elettrificati e persici, tinche, pesci gatto vengono a galla, stecchiti: lo racconta un’inquadratura dall’alto, drammaticamente efficace. “Noi seguiamo le regole, loro no”, serpeggia una certa voglia di rimediare alle spicce.



Causo (Sergio Romano), il padrone del ritrovo - è un posticino così trendy che non avrebbe sfigurato in “Un tranquillo weekend di paura” - storna invece il dito contro gli scarichi abusivi e si indovina presto il perché: è l’italianissimo ricettatore dei pesci catturati dai rumeni, maledetti da chi getta le reti ma benedetti da lui, una brutta personcina che incamera chilate di carpe e persici pagando poco o niente. I Florian hanno trovato ricetto in una “casa” tra molte virgolette e se la vivono da poveracci, esuli perché già pizzicati in patria dalla polizia mentre pescavano illegalmente. Pure nel Delta non è più aria, vogliono realizzare e quindi filarsela così affidano a Elia il compito di esigere il dovuto.



Giunto nel locale, incrocia Causo ubriaco duro che canta laidamente (da solo, ovvio), lo malmena, si prende un malloppo di banconote. Causo gli spara, perde la pistola, si menano, Elia, da terra, agguanta l’arma e fa fuoco. D’obbligo la fuga, alla cameriera del bar-ristorante (Emilia Scarpati, nevrile, ossessionata da quel bastardo posto) Elia gusta un bel po’, lo conosce dal tempo della scuola. Eccola un’altra anima sospesa, ex di Osso pensa di fare reset e segue l’orsino bracconiere, ormai alla macchia. Se ne pentirà a breve.

Causo, portato in ospedale, non sopravvive e alcuni pescatori, cui si aggiungono Osso, ora convertito alla giustizia sommaria, e Nina, danno fuoco al casone di pesca dei Florian. Un ultimo carico ittico è affidato a un camioncino diretto in Romania, un posto di blocco dei carabinieri lo intercetta e la violenza prende a montare, altre sparatorie, altre morti, è caccia all’uomo. Osso ha un ottimo motivo (e non è la gelosia) per far concorrenza a elicotteri e pattuglie dei cc, la sua filosofia è chiara: il miglior perdono è la vendetta. Il grande fiume inghiotte qualsiasi speranza e forse anche la verità. A Elia l’ultima parola: “Passiamo tutta la vita a combattere contro di noi per diventare migliori ma poi alla fine siamo sempre gli stessi”.



“Delta”, distribuito da Adler Entertainment, non dà pause, fila con bel passo in bocca alla nemesi finale e alla decisa riuscita concorre una congiuntura di fattori positivi, dalla regia di Vannucci bravo a calibrare l’azione scervellata degli uomini e un pacato teatro naturale che da solo, nel formato widescreen, dà spettacolo, alla scenografia maniacalmente curata da Laura Boni: in quel bar-ristorante, nei casoni, nelle abitazioni mai uscite dal passato si sente l’odore della ristrettezza non solo economica e di un polveroso mondo a parte. E non vanno tralasciate le musiche di Teho Teardo e la fotografia di Matteo Vieille, diaccia, fusa nel luogo con rare dronate funzionali al respiro del film.

Senza pecche la sceneggiatura dello stesso Vannucci e di Massimo Gaudioso, con Fabio Natale e Anita Otto, a parte un paio di scelte discutibili: Elia già ricercato accorre al casone incendiato, è notte ed è il metodo più sicuro per attirare carabinieri col grilletto facile; improbabile che una guardia volontaria, nel caso Nina, partecipi così dappresso alla fatale perquisizione del camioncino in fuga. Ma gli assi veri sono Luigi Lo Cascio in un ruolo Jekyll/Hide, a suo agio nella calata in emiliano standard e Alessandro Borghi, già nel cast del primo film di Vannucci, la docu-fiction “Il più grande sogno” (2016), che si dà tutto in una generosa prestazione anfibia per necessità di copione, tra spasimi, occhi da folle e grugniti semi trogloditici, in un ruolo estremo come per “Il primo re” e “Le otto montagne”. Dopo il protolatino Remo e lo scostante alpigiano Bruno, questo Elia apolide dell’esistenza si farà ricordare.



Matteo Rovere era il regista dell’action movie mitologico sulla fondazione di Roma, un film a budget robusto prodotto da Groenlandia, casa di produzione che lo vede socio di Sydney Sibilia, regista del felice trittico “Smetto quando voglio”, forse l’unica vera novità negli ultimi giri della commedia nostrana e ora nelle sale con “Mixed by Erri”. Groenlandia, una factory creativa cinematografica con mille progetti e idee, punta dritto alla reinvenzione dei generi, la Kino di Giovanni Pompili, altra realtà positiva nel panorama italiano, tiene d’occhio i giovani autori: hanno lavorato insieme per “Delta” e puntato sul regista giusto.



Vannucci ha confessato un debito d’ispirazione con “I guerrieri della palude silenziosa" di Walter Hill, un’eco è presente e però quanto a genealogie cinematografiche “Delta” si allinea piuttosto gagliardamente a una notevole sequenza di film italiani incastonati nel nostro Far East. Un rapido sorvolo può partire nobilmente dal sesto episodio, “Porto Tolle”, del rosselliniano “Paisà” (1946) e proseguire col breve documentario “Gente del Po”, prima prova di Michelangelo Antonioni, uscita nel ’47, un germe che avrebbe fruttificato nel suo “Il Grido” di dieci anni dopo, ambientato nell’immaginario paese di Goriano. Scriverà il regista ferrarese, che aveva genitori di Pontelagoscuro e Bondeno, a proposito di “Gente del Po”: “Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, parte da lì”.



Nel ’55 va in sala “La donna del fiume”, girato nelle Valli di Comacchio da Mario Soldati, sulla scorta dei documentari “Uomini della palude” e “Tre canne un soldo” di Florestano Vancini. Protagonisti Sophia Loren, che è Nives, operaia alla Manifattura dei Marinati di Comacchio, dove ancora oggi si arrostiscono, marinano e inscatolano le anguille, e Rik Battaglia, attore per caso, nei panni di Gino, un contrabbandiere. Po e fatica di vivere, in sceneggiatura diede un contributo Pier Paolo Pasolini, è un film tematicamente non lontano da “Riso amaro” (1949) di Giuseppe De Santis. Con Silvana Mangano mondina nel Vercellese e Gassman pregiudicato in fuga, siamo in un dramma senza redenzione e senza Delta, ma sicuramente davanti a un pezzo di grande cinema.



Saltiamo al ’76 per “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo, con Ingrid Thulin, tratto dall'omomimo romanzo della partigiana Renata Viganò, molte le scene girate in Valle Pega, nel Comacchiese. Del 2007 è il notevole “La giusta distanza” di Carlo Mazzacurati - ultimo capitolo della Trilogia del Po, ambientato nel Delta come “Notte italiana” (1987) e “L’estate di Davide” (1998) - un giallo “sociale” con delitto e razzismo, che scava sotto la superficie di una società serena solo all’apparenza. Ancora Delta con l’estetizzante “Blue Kids” (2017) di Andrea Tagliaferri e il doc di Andrea Segre “Po” (2022) sull’alluvione in Polesine del ’51. Più che una location unica, l’estuario del grande fiume è una calamita di sogni, drammi, avventure.

 

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