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di
ANDREA ALOI
A Moretti bisogna dire “grazie” per motivi che sono estrinseci alla maggiore o minore riuscita del suo quattordicesimo lungometraggio, “II sol dell’avvenire”, col regista Giovanni/Nanni in crisi con la moglie Paola (Margherita Buy) e non solo, impaniato nelle riprese di un film ambientato al romano Quarticciolo nel 1956, anno dell’invasione sovietica in Ungheria. Arriva il circo magiaro Budavari, Ennio (Silvio Orlando), il segretario della locale sezione “Antonio Gramsci” del Pci , fa gli onori di casa, ma i carri armati mandati a Budapest da Nikita Chruščёv spaccano festa e coscienze: che voglia di riscrivere la Storia alla Tarantino in questo film dentro al film (come “Il caimano” e “Mia madre”); ed è solo uno dei mille nodi che legano “II sol dell’avvenire” all’ormai quasi cinquantennale viaggio creativo del regista. A Moretti si deve dire “grazie” per le discussioni impiccate all’uscita dalla sala o a cena nel dopocinema. Grazie perché divide e obbliga a dar spago al cervello. Grazie perché quasi sempre cita solo se stesso ma non lo possono fare in molti con lo stesso successo e piacere per gli aficionados della prima ora che ormai lo ritengono un parente, coi suoi vizi e i suoi inchiodi, gli alti e i bassi. I detrattori da social della prima ira se ne facciano una ragione.
Grazie anche per la sua etica della responsabilità. Un regista dev’essere consapevole di ciò che dice e lascia alla gente in sala: è l’accorata mozione intellettuale di Giovanni in visita al set di un giovine collega tutto fremiti per il criminal-sparatutto-splatter che sta girando. L’irruzione è un bocconcino morettiano classico (siamo nei paraggi di “Henry pioggia di sangue” in “Caro diario”) su cui stavolta spalma autentico caviale. Giovanni, incurante del disagio della moglie che quel film produce, blocca le riprese dell’ultima scena, l’esecuzione di uno sventurato in ginocchio da parte di un ceffo capace appena di gridargli “muori bastardo”. E la troupe resterà ferma otto ore, fino all’alba, con Giovanni che ospita Corrado Augias, Renzo Piano e Chiara Valerio a sostegno del suo personale flash mob e arriva a lasciare un messaggio in segreteria telefonica a Scorsese: “Così può spiegare come si gira una scena del genere”. In che modo va “servita” la violenza? Sopprimere una vita è un gesto terribile, un po’ di etica reclama Giovanni, citando “Breve film sull’uccidere” di Kieslowski, non ce la si può cavare con uno sparo, una maledizione e via. Puro Moretti. Con bel corredo visivo, campi lunghi, lo spazio desolato di un enorme magazzino: la più bella impennata del film. E infine, complici stampa e tv riverenti insieme a un eccellente battage pubblicitario, un grazie al regista lo deve anche il botteghino.
“La storia non si fa con i se… E chi l’ha detto?”, esordisce Giovanni alle prime battute del film. Così piega gli eventi, boccia il titolo d’apertura dell’Unità nel giorno dell’invasione russa, troppo lungo, lo cambia da “Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco” a “Stroncare la controrivoluzione ungherese”. E se Togliatti avesse deciso di condannare la repressione dei moti popolari sconfessando il legame d’acciaio con Mosca e ponendosi a sostegno dell’insurrezione antisovietica? I militanti - sogna Giovanni e poi realizza dietro la macchina da presa: il cinema fa miracoli - avrebbero approvato, come la moglie di Ennio, Vera (Barbora Bobulova), spirito libero a differenza del consorte fedele alla linea. Ennio non si sarebbe impiccato seguendo la vecchia sceneggiatura, avrebbe ballato in tondo felice con il cast e i macchinisti e Giovanni sulle note di “Voglio vederti danzare” di Battiato. Maestranze e attori trasformati in dervisci rotanti.
Un sottofinale “musical” - costante assoluta nel cinema di Moretti, che ama questi svoli e queste rotture d’equilibrio non solo ludiche - prima della conclusiva sfilata circense, elefanti compresi, in via dei Fori Imperiali. Quasi una passerella da rivista, guidata da Orlando e Bobulova, con tanti amici e volti noti dei suoi film, Jasmine Trinca, Dario Cantarelli, Giulia Lazzarini, Lina Sastri, Renato Carpentieri, Fabio Traversa, Elio De Capitani, Alba Rohrwacher, Anna Bonaiuto e l’assenza, s’immagina non casuale, di Laura Morante. Si sente un sapore d’addio, di commiato, una volta rivisitata la Storia ed esibito nella sfilata un ritrattone di Trotzsky a simboleggiare l’anti-stalinismo e una via umanistico-libertaria al socialismo (auguri Nanni, Trotzsky non era Stalin ma pur sempre un bolscevico che credeva nella dittatura del proletariato). Pure si sono smussate le asprezze e i turbamenti privati di Giovanni, rassegnato davanti alla decisione di Paola di separarsi e della figlia Emma (Valentina Romani) di far coppia con un polacco (l’immancabile Jerzy Stuhr) che lavora in ambasciata e di Emma potrebbe essere il nonno. Verrebbe da credere a un commiato, Moretti è alle soglie dei settanta, però è meglio non cascarci.
“Nella vita nessuno cambia mai veramente” sostiene Giovanni e noi crediamo a lui e a Nanni che, ancora incarnante Michele Apicella, in “Sogni d’oro” confessava: “A malapena rappresento me stesso”. Ma nel “Sol dell’avvenire” ammette: “Non ci penso al pubblico… Mi piace dirlo che non ci penso”. Invece ci pensa eccome. Si espone meno in maschera stavolta, nella prima mezzora del film (farraginosa e plumbea) non recita, declama affaticato, si mette volutamente, estremamente a nudo, a dirci questo sono io, coi miei tic, desolazioni, sarcasmi. In fondo “io sono delizioso”, dice, però sui miei fondamentali tengo duro, in fondo sono ostaggio del mio pubblico e insieme alle platee amiche continuo a a difendere quel minimo di cultura e di consapevolezza storica che serve a vivere non da bruti (Inizio film, riunione di cast, autori, troupe, Giovanni: “Allora, Ennio e Vera, i nostri protagonisti, sono due iscritti al Partito Comunista…”; intervento di un addetto alle scene sui quaranta: “Ma perché, in Italia c’erano i comunisti?”; Giovanni: “Ma come, se in Italia c’erano i comunisti? C’era un grande partito con due milioni di iscritti…”; l’addetto: “Ah, quindi c’erano due milioni di russi che erano venuti in Italia a fare i comunisti!”. Sob). Duretta è la bordata contro le serie tv, le odiate piattaforme digitali. In un’intervista recente Moretti lo aveva ribadito: “Lo streaming va bene per le serie, i film si devono fare per il cinema”. E stavolta dallo schermo spara ad alzo zero, Giovanni è allibito e sprezzante davanti a due dirigenti di Netflix che devono valutare il film per decidere se inserirlo o meno sulla piattaforma e ne criticano la sceneggiatura, “l‘inizio slowburner”, la mancanza di un “what a fuck”. Moretti aristocraticamente si chiama fuori, Netflix è presente in 190 paesi? E chissenefrega.
“Il sol dell’avvenire” ha i suoi picchi, talvolta stenta e si colloca in una aurea medietà, poi se si guarda l’altalenante panorama del cinema nostrano bisogna ammettere: tutto sommato, avercene di film così. I 95 minuti di olimpiade autocitazionista faranno contenti molti e divertiranno come un trivial del cinema morettiano. C’è il Circo Budavari che porta il nome del pallanuotista ungherese inesorabile di “Palombella Rossa”. Il giro per Roma non in vespa ma in monopattino (col produttore francese Pierre-Mathieu Amalric, un cialtrone vendifumo). Non c’è la Nutella di “Bianca” ma il gelato, parte del rito familiar-scaramantico con moglie e figlia predisposto da Giovanni nell’imminenza dell’inizio delle riprese del suo film, rito comprensivo della visione di “Lola-Donna di vita” di Jacques Demy seduti sul divano: finirà a capocchia. Da notare nell’occasione Moretti paludato in una coperta di lana patchwork fatta all’uncinetto, la stessa esibita in “Sogni d’Oro” per guardare un film in tv con la madre: un altro capo d’abbigliamento cult dopo la mantella nera di “Caro Diario”. C’è la battuta sui sabot, sorta di scarpe-ciabatte aperte sul tallone, simbolo di “una tragica visione del mondo”, come le pantofole (ammesse solo quelle di Aretha Franklin nei “Blues Brothers” quando canta “Think”), già condannate all’esecuzione capitale in “La messa è finita”.
C’è Moretti che gioca a pallone (“La messa è finita”), che nuota in vasca. Dopo “Il sol dell’avvenire” Giovanni ha in animo di girare la storia d’amore quarantennale di una coppia accompagnandola con celebri canzoni italiane - come “La canzone dell’amore perduto” di de André -, un film che comprende un viaggio a nuoto di lui verso lei attraverso le piscine di Roma. E ne immagina alcune scene. In una di queste i due ragazzi sono al cinema e passano le immagini finali della “Dolce vita” con Valeria Ciangottini e Marcello Mastroianni. Quindi i film nel film diventano tre mentre se ne cita esplicitamente un quarto). C’è Giovanni che riprende Vera perché ha dimenticato la parola “eresia” e sappiamo, da “Palombella rossa” in poi, che “chi parla male, pensa male e vive male”. C’è la psicoanalisi (“Habemus Papam”, “Sogni d’Oro”, dove Michele Apicella sta ultimando le riprese del suo terzo lavoro, un'opera su Sigmund Freud, che da anzianotto ancora vive con la madre).
“Il sol dell’avvenire”, scritto da Moretti con Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, è prodotto da Sacher Film, Fandango, Rai Cinema. Musiche, ovviamente, di Franco Piersanti. In 500 sale con Distribution 01.
Poscritto. Il titolo del film è un motto, diventato celebre, di Garibaldi. Reduce dalla spedizione compiuta nella Francia repubblicana contro i Prussiani, l’eroe dei due mondi scrive in una lettera a Celso Ceretti il 22 settembre 1872: “L'Internazionale è il sole dell’avvenire”. Oggi, centocinquanta anni dopo, ci accontentiamo già se non grandina.
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