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di
ANDREA ALOI
Ancora “Indiana Jones”?
Ovvio, l’industria cinematografica americana spreme i franchise di successo fino all’ultima goccia, così,
quindici anni dopo “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” — per la gioia della Lucasfilm aveva incassato 743 milioni
di dollari e rotti — ecco “Indiana Jones e il quadrante del destino”, quinto capitolo delle avventure archeo-misteriose di
Indy, forse destinato a chiudere la serie data l’età di Harrison Ford, indispensabile, tonante protagonista oggi ottantenne
frizzantino ma, cantavano i Rolling Stones, “Time waits for no one”: l’Indiana ringiovanito digitalmente e un pelino cyborg
nell’espressione impegnato a scazzottarsi coi nazi nel prologo ambientato nel ’45 lascia subito il passo a un professor Jones fresco
di pensione in quel di New York, pieno di ruggini fisiche e sentimentali.
È il 1969, l’anno dello sbarco sulla luna, la gente celebra l’exploit a stelle e strisce, c’è chi trama e non nell’ombra, trattasi di uno scienziato “cattivo” perché mai pentito del suo passato nazista, quindi sospettabile e però protetto ai massimi livelli. Budget a sfiorare i 300 milioni di dollari, effetti speciali a gogò, location sontuose, New York, Marocco, Sicilia, un nuovo regista, James Mangold, a gestire l’eredità di Steven Spielberg, sempre al timone dai “Predatori dell’arca perduta” dell’81 al “Regno del teschio di cristallo” (2008), inframmezzati da “Indiana Jones e il tempio maledetto” (1984, il peggiore di tutti) e “L’ultima crociata” (1989).
Bilancio?
“Il quadrante del destino” è un’operazione nostalgia che vale il prezzo del biglietto e non solo per gli aficionados di Indy,
con un classico e ben apparecchiato menu, due ore e mezza di agguati, corse a spezzacollo su un’Ape per le strette vie di Tangeri e immersioni
profonde da embolia garantita a caccia della metà mancante della mirabolante macchina di Anticitera, un aggeggio inventato da Archimede in grado
di calcolare i varchi temporali, niente di meno. In effetti Archimede nulla poteva c’entrare con quella macchina del II secolo avanti Cristo
realmente esistita e creata per calcolare il calendario solare e lunare, essendo nato e vissuto nel secolo precedente. Un eroe serio non si
occupa di queste piccolezze, anche se è un professore di archeologia, quando c’è da ballare balla e corre pure, poche falcate da vecchietto,
ma quanto basta a tenere la scena.
Va pur detto che la prima ora di film spiattella un ritmo forsennato da videogioco, in nome di un’ansia cinetica da “tanto rumore per nulla”, poi la storia rimette al centro Indiana, ridiventa “sua”, si prende i suoi tempi, lascia assaporare invenzioni e dà spazio a precipizi e svoli emozionanti quel tanto che basta per immergersi come un bambino di dieci anni nello schermo e uscirne soddisfatti quando in sala si riaccendono le luci. La quinta impresa di Indy, benché non paragonabile ai “Predatori” (film scritto da Lawrence Kasdan e basato su un soggetto di George Lucas e Philip Kaufman: serve altro?) e alla “Crociata” con Harrison Ford affiancato da Sean Connery, padre irresistibile dell’archeologo, non delude.
L’importante, secondo i genitori delle imprese di Indiana Jones, Spielberg in testa, è che i nazisti facciano la solita figura di guano da cazzoni guerrafondai che si commuovono ascoltando “Lili Marleen”, un po’ burattini o poliziotti da vecchie comiche, un po’ scienziati sbiellati in preda a deliri di onnipotenza. Così, come nei “Predatori” la bramata Arca dell’alleanza farà strage di SS e nell’“Ultima Crociata" un Hitler voglioso di immortalità manco sfiorerà il Sacro Graal, nel “Quadrante del destino” pure Jurgen Voller, lo scienziato nazi “dentro” (gli dà le giuste speziature carognesche Mads Mikkelsen) topperà la sua mission impossible, ovvero riscrivere la storia della seconda guerra mondiale viaggiando nel tempo con la prodigiosa macchina di Anticitera. “Voi non avete vinto la guerra, l’ha persa Hitler”, dice a Indiana Herr Voller durante un rendez-vous in cui mostra tutte le sue pessime intenzioni.
Il fisico ha collaborato col governo statunitense per il buon esito dell’allunaggio di Neil Armstrong (tanti scienziati tedeschi di pregio vennero in effetti arruolati nell’immediato dopoguerra dagli Usa), sa che metà della macchina di Anticitera è nei magazzini dell’università dove ha insegnato Indiana e la rivuole. Racconta il prologo che ci aveva messo su le grinfie nel ’45 — i nazisti depredavano quadri, cimeli — ma Indy l’aveva lasciato a becco asciutto, si erano inseguiti anche sul tetto di un vagone ferroviario lanciato in corsa (a osservare attentamente, l’amalgama tra sfondo e attori “sovraimpressi” non è perfetto) e pareva che Voller ci avesse rimesso le penne, invece…
Spalleggiato dal colonnello Weber (Thomas Kretschmann), un imbecille compulsivo che adora uccidere, va vicino alla meta, ma il quadrante viene ghermito da Helena — ben giocata da Phoebe Waller-Bridge — una spalla femminile briosa e birichina, prevedibilmente fuori dai margini, com’era stata la Marion “alcolica” di Karen Allen nei “Predatori”. Figlia di Basil Shaw (l’ottimo Toby Jones) un amico e collega di Indy, Helena ha molto studiato, sa leggere geroglifici, antiche iscrizioni ed è figlioccia del professor Jones, ma ama assai il denaro e punta a mettere all’incanto la preziosa macchina a un’asta clandestina in quel di Tangeri. Voller e soci la rincorrono inutilmente in mezzo alla sfilata che sta celebrando gli astronauti dell’allunaggio (un cacciatore e una preda, la folla: scena vista mille volte al cinema, però continua a funzionare).
E parte la rumba. Helena fa fronte comune con Indiana, in Marocco si aggrega Teddy (Ethan Isidore), un furfantello molto sveglio amico di Helena, funzionale alla storia, dove si ritaglierà nel finale un ruolo di sostanza, a differenza del piccolo Shorty (Ke Huy Juan) di “Indiana Jones e il tempio maledetto”, una presenza utile soprattutto a catturare l’interesse del pubblico più giovane. Dopo il Nordafrica, i tre da inseguiti si fanno segugi perché la metà del quadrante è finita nelle mani di Voller, poi è il fisico nazi a mettersi sulle loro tracce nel mar Egeo, dove Indy incontra il vecchio amico Renaldo detto Eddy (Antonio Banderas) e quindi a Siracusa. Ci sono da scovare l’altra metà del calcolatore e l’indispensabile grafikós, una specie di manuale per farlo funzionare, una volta ricomposto. Ulteriori cenni sono proibiti, la sceneggiatura è spessa, i colpi di scena succosi, fino all’ultimo zuccheroso fotogramma.
“Indiana Jones e il quadrante del destino” è stracolmo di agganci interni alla saga, da Sallah (John Rhys-Davies) fidato amico egiziano di Indy, già presente nei “Predatori” e nell’“Ultima crociata” alla citata Marion, picaresca compagna di ventura nel primo film e rispolverata nel “Regno del teschio di cristallo”, che qui regala un cameo-ciliegina sulla torta. E se nell’“Ultima crociata” spiccava da protagonista il Sacro Graal, qui spunta nel prologo un’altra formidabile reliquia, la lancia del centurione Longino che aveva trafitto il Cristo sulla croce. Peccato sia falsa, qualche piazzista di antichità era riuscito a far fesso il gerarca desideroso di portare un dono inestimabile al Führer. E attenzione, non manca una gita in grotta tra insetti perfidi, perché Indiana oblige.
Per i rimandi esterni, al di là degli echi strutturali tipici del genere avventuroso-fantastico (ad esempio, l’attempato Indy prima di tornare in servizio si munisce di cappello e frusta, “marche” dell’eroe e oggetti magici morfologicamente sempre presenti in ogni fiaba che si rispetti), c’è solo da scegliere tra “Ritorno al futuro”, “Il dottor Stranamore” evocato dal colonnello Weber che smitraglia in articulo mortis, e “Missione Goldfinger”: il tirapiedi muscolare Hauke (Olivier Richters) del villain Voller si specchia nel monumentale Oddjob (Harold Sakata) al servizio di Auric Goldfinger nel terzo film di 007.
Sceneggiato da Jez e John-Henry Butterworth con David Koepp (team impegnato in un lavoro di rispettoso ricalco e poco altro, tra cui la seguente battuta, Voller: “Tu dovevi essere a New York”, Indiana: “E tu non dovevi andare in Polonia” ), il film è prodotto da Lucasfilm con Disney Pictures. Distribuzione abbondante e non c’era da dubitarne.
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