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FUGA
DA BARBIELAND
LA RIVOLUZIONE IN ROSA

di MANUELA CASSARÀ

Il 9 marzo 1959 nasceva una certa Barbara Millicent Roberts. Barbie per le amiche. Pochi mesi dopo, giusto il tempo di aver piagnucolato con insistenza, Barbie era arrivata anche a casa mia, un regalo dello zio Armando, l’unico ricco della famiglia. Fresca di fabbrica, gambe lunghe, vitino di vespa, capelli biondi, occhioni blu, tacchi a spillo, la mia Barbie, slanciata e burrosa, indossava un costumino a righe che mi ero subito affrettata a toglierle, curiosa di vedere quelle sue tette.

Mandati a ramengo i miei due alter ego, Pippi Calzelunghe e Jo di Piccole Donne, che pure non erano due sciacquette qualsiasi, le avevo realizzato un bel boudoir in una scatola da scarpe. Basta sognare di fare la pirata, diventare una scienziata o anche solo l'avvocata; in sincrono con i miei ormoni, avevo trovato il mio nuovo modello di comportamento. Volevo una vita colorata di rosa e essere una figona spaziale; data la mia predisposizione genetica avrei fatto meglio a concentrarmi sul diventare un'astronauta. Più fattibile.



Se non siete persona informata dei fatti potreste pensare che quel fisichetto da pin up in celluloide sia nato dal sogno erotico di un maschietto. Beh, in un certo senso. Ma se a dare i natali alla nostra Barbie era stata una donna, Ruth Handler... La sagace Signora Ruth aveva notato la scarsa propensione materna della figlioletta Barbara che, come me alla sua età, era invece un’appassionata di bamboline di carta. Piuttosto che scarrozzarsi paffuti e piagnucolosi bambolotti, Barbara passava il suo tempo a farle vivere come delle precoci signorinelle. Non era stato facile convincere il marito, un certo Mr. Mattel, ma alla fine Ruth ce l’aveva fatta quando gli aveva mostrato Bild Lilli. Nata come una strip pubblicata sul tabloid tedesco Bild-Zeitung, Lilli era una signorina di Amburgo, dichiaratamente di facili costumi, che seduceva ricchi signori per guadagnarsi da vivere. Nel 1953 con Lilli ormai popolarissima, lo Zeitung l’aveva fatta diventare un giocattolo per soli uomini, venduta nelle tabaccherie e nei sexy shop, di cui la città brulicava. Una giornalista del New Yorker, venutane a conoscenza, l’aveva subito definita “bambola del sesso”, ma la cara Mrs Ruth, nonostante quell’aria da zia paciosa e bigotta, non si era fatta tanti scrupoli morali.


(Lilli)


Se per questo, nemmeno Mr. Mattel. Ambedue non ebbero a pentirsene: già quel primo anno Barbie vendette 350.000 esemplari. Mettiamo anche agli atti che nel 1964 la Mattel avrebbe acquistato tutti i diritti di Lilli. Per adattarsi al mutevole spirito dei tempi, costosi studi di marketing avevano fatto capire ai Signori Mattel che, per sopravvivere, Barbie avrebbe dovuto allargare i suoi orizzonti razziali, estetici e professionali con un'offerta inclusiva che andasse ben oltre qualche bel completino e un mondo colorato di rosa. E così Barbie aveva incominciato a mettere su famiglia. Prima con una banda di sorelle che non sto a nominare, anche perché molte in seguito sarebbero decedute commercialmente. Poi con gli amici: Ken nel ruolo di fidanzato, affiancato in seguito da multietniche variazioni sul tema; il suo ancor più sfigato amico Adam (nel film un quasi irriconoscibile, molto divertente, Michael Cera con toupet rosso) e la migliore amica Midge, quest’ultima addirittura incinta.

Li cito perché li ritroviamo nel film. Siete curiosi di sapere quanto vale il giro d’affari di Barbie, tra bamboline, vestitini, compagnucci, accessori, case, gadget, macchine e carabattole varie? Oggi, nonostante un calo del 5%: novecentocinquantadue virgola nove milioni di dollari! 952,9. Yes. Pertanto è per storica affezione che rivendico il diritto a questa recensione, dichiarando però che, nonostante i miei trascorsi di Barbie Girl delle prime ore, prometto di essere imparziale.


(Ruth Handler)


Negli ultimi tempi, con una dedizione senza precedenti persino per un algoritmo, Facebook era riuscito a bombardarmi e adescarmi con filmati, interviste e articoli sull'uscita del film omonimo che si candidava, prometteva Meta, a essere uno dei maggiori film dell'anno, per la regia di Greta Gerwig, che già aveva suscitato il mio interesse nel 2019 andando piacevolmente a stravolgere un altro mio mito con il remake di 'Piccole Donne'. Le prime avvisaglie che forse avevo fatto il passo più lungo della gamba, le avevo avute ascoltando il pippone dello youtuber Federico Ferrante. In un crescendo di decibel che mi hanno fatto temere per la tenuta della sua giugulare, Ferrante ci è andato giù pesante. Provo a concentrare: un filmetto pretenzioso, mal scritto, pseudo femminista, antimaschilista, in forte puzza di marketing pro Mattel. Su questo potrebbe averci visto giusto, considerando che la Mattel assieme alla Warner Bros è la produttrice del film, considerando che appena spente le luci è partita la pubblicità delle Superga marchiate Barbie e considerando che da Zara è già attivo un corner di zuccherosissimi abitini in stile Barbie. E i gadget, il merchandising, incluso i costumi del film taglia bambola stanno inondando il web.

Ora, tornando a Ferrante, mi sembra però esagerato. Intanto IndieWire, sito indipendente di recensioni cinematografiche, già predice candidature prossime venture all’Oscar. E ci capiranno ben qualcosa, loro, caro il mio Ferrante. Detto questo, l'uomo mi pare abbia dei tabù cinematografici. A fargli partire il primo embolo la per lui sacrilega cena iniziale, trasposizione dell'Alba dell'Uomo da 2001 Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Al posto delle scimmie con le loro clave, ci sono delle bambinette impegnate a fracassare, sbatacchiandoli ferocemente, quei cicciolotti dei loro bambolotti - mentre al posto del misterioso monolite nero dal cielo scende la Prima Barbie bionda in tutto il suo succinto splendore. L'inizio di una nuova era. Basta giocare a fare le mammette melense. Il corpo è mio e lo gestisco io, remember?


(La prima Barbie)


Al riguardo cito l’autorevole recensione del New York Times, che pone una domanda pragmaticamente corretta: “Può una bambola con le tette pronte al decollo e un sorriso accattivante, diventa un'icona femminista?" Bisogna dire che la Gerwig ci prova. Ora vado, vedo e vi dico.

Eccomi qua. Visto. Parto larga, dalla prima inquadratura. Zoom dall’alto su Barbie Stereotipo - e perciò sulla radiosa Margot Robbie mentre si stiracchia nel suo lettino a forma di cuore. Per tutti i 114 minuti del film, Margot sfoggerà un catarifrangente sorriso a 32 denti. Non vorrei le fosse costata un’operazione maxillo-facciale per slogamento della mascella.

Fatta una finta colazione in cui si versa e beve un succo che non c’è, vestita a quadretti rosa genere BB a Saint Tropez, scende a terra sulle punte dei suoi tacchi dodici. Badate che i piedi sono importanti; non li sto citando a caso. Dopo aver salutato a destra e a manca innumerevoli consorelle, tra cui un paio di felici Barbie spazzine, un’allegra Barbie postina, una sorridente Barbie Benzinara - perché in questo mondo matriarcale la democrazia annulla gli strati sociali e nessun lavoro è umile se messo al servizio del bene comune - la nostra Barbie procede per BarbieLand a bordo della sua decapottabile rosa, per strade lastricate di rosa, affiancate da ville color rosa Pantone 219 (che, data la richiesta globale, al momento non è più disponibile) costeggiando giardini arcobaleno, sotto un cielo 100% cyan.



Momento di plauso estetico alla scenografa Sarah Greenwood; seppur facilitata da decenni di lavoro della Mattel, brava per il riferimento alla Palm Spring degli anni ’50. E un brava anche alla costumista, Jacqueline Durran, anche se il suo lavoro era più facile. Nella storia della Moda di Barbie tutto era già stato scritto, dalla Costa Azzurra a Chanel. Entra in scena Ken. Ken il fidanzato, Ken l’amico, Ken l’inutile. Ken il bello ma scemo. Il povero Ken. Uno che, nella vita, di mestiere fa quello che sta sulla spiaggia. Nient’altro.

Ken invece necessita di un paio di parentesi. Primo perché Ryan Gosling è uno schianto nonostante gli imbarazzanti capelli ossigenati; secondo perché ruba la scena per la sua simpatia, senza contare i suoi addominali da ululo e quel colorino bronzeo levigato; terzo perché Ken che ha sempre contato meno di una cicca, cosa che lo cruccia alquanto, fa tenerezza; quarto perché a Ken mancano letteralmente gli attributi. Se per questo anche a Barbie. Barbie, signore mie, non ha la vagina. Insomma i due non scopano. Ovviamente si sapeva, ma andava proprio strombazzato ai quattro venti?



Ora man mano che la storia procede, a rilento oso dire, tra gridolini e battutine, Barbie si accorge che qualcosa non va. “Hey - si sorprende a pensare - qualcuno di voi non pensa mai di morire?” Assieme a un po’ di cellulite sulla coscia è come se questi impensabili pensieri di morte la portassero immediatamente con i piedi per terra. I suoi piedi, preposti a stare sulle punte, predisposti a calzare solo tacchi vertiginosi, sono improvvisamente totalmente piatti. Grazie a Weird Barbie, una che la sa lunga, una Barbie Stramba fuori dal sistema, semi scotennata e deturpata col pennarello da qualcuna che si era stufata di lei - una strepitosa Kate McKinnon - si scopre che quei pensieri le arrivano dal mondo reale, dove una bambina la sta influenzando con la sua negatività esistenziale.

“Se vuoi far sparire la cellulite e tornare a camminare sulle punte, Barbie cara, devi andare a cercarla. Devi trovarla. E dato che ci sarà da scarpinare, tanto vale che indossi un comodo paio di Birkenstock” consiglia Stramba. Il che suona proprio come un bel product placement! D’altronde il film è costato centodieci milioni di Euro. Avoja a far marketing. Il viaggio sarà lungo; Ken, che a sorpresa si è infilato nel cofano, le farà compagnia, ma i passaggi bisogna farli tutti: prima in camper, poi in tandem, su una barca e pure con un’astronave, per atterrare in quel di Venice, California, e cercare di confondersi tra la folla di ragazzotti in skate boards e ragazzine in shorts, grazie ai loro roller skates fluorescenti. Mentre la trama s’infittisce, il beneamato, che mi ha accompagnata, invece s’innervosisce. Troppo rosa. E tutti quei gridolini gli danno sui nervi. Non entro nei dettagli, se no racconto tutto il film e poi magari non ci andate o forse non ci andate a prescindere perché vi è bastato il preambolo.



Vi do un paio d'indicazioni sulla loro fuga. La Mattel, quella finta, entra in stato di agitazione, da cui si evince che il Board è un posto di cretini servili (l’autoironia depone a favore della Mattel, quella vera) e il CEO, un Will Farrell istrionico seppur sottotono, è un cretino al cubo. La colpa, scopriamo, non è di Sasha, cazzuta adolescente, che perciò, dato il gap generazionale, con le Barbie non ci ha mai giocato. La colpa è di sua madre Gloria, impiegata della Mattel, cresciuta a pane e Barbie, interpretata da America Ferrera. Intanto che Barbie entra in contatto con la fragile femminilità delle sue nuove amiche e scopre la sua, Ken si accorge che nel mondo reale, sorpresa signori e signori, vige il patriarcato. Ringalluzzito da una botta di “kenergia”, se ne torna di filato a Barbieland con grandi progetti: riscattare le sorti dei Ken e dare loro il posto che si meritano. Un golpe al testosterone.

Tornata a Barbieland, accompagnata da madre e figlia con lei per aiutarla a ristabilire gli equilibri perduti, Barbie trova il suo mondo stravolto, tutte le Barbie rincitrullite, felici di servire i vari Ken che, scoperto il potere, sono diventati competitivi e belligeranti, già proni all’autodistruzione. Effettivamente signori maschi questo film con voi non ci va leggero. Invece, signore mie, vedremo come un po’ di sana sorellanza farà miracoli e riuscirà, quasi ipso fatto, a restaurare il buon sano e vecchio matriarcato; ma in Barbie, lei che si pregiava con orgoglio di essere Stereotipo, la neo consapevolezza e l’incontro con una certa vecchina nascosta nei meandri della finta Mattel, hanno prodotto un cambiamento.



Senza voler spoilerare il colpo di scena finale, dico solo che è abbastanza probabile che la nuova Barbie, d’ora in poi se la godrà. Concludo con una mia domanda. Ma cosa gli sarà saltato in testa agli Americani, spregiudicati geniacci del marketing, di fare uscire in tandem, a seguire nella stessa sala, sia Oppenheimer, il super atteso film di Christopher Nolan, sia Barbie the Movie, coniando l’operazione mediatica con il termine Barbenheimer? Non offro risposte ma riporto il consiglio di Stuart Heritage sul quotidiano The Guardian, nel suo 'Sono sopravvissuto al Barbie- Oppenheimer double bill'. Il giornalista, ancora sotto choc, si rivolge a coloro che, come lui, volessero spararsi cinque ore di proiezioni: 'Per amor di Dio non cominciate con Oppenheimer'. E per amor di cronaca informo invece che da noi Oppenheimer sarà in sala più saggiamente il 23 Agosto.

Post scriptum. Uscendo il beneamato mi ha annunciato, soave: “Guarda che stasera mi faccio un film con Chuck Norris”. Troppi estrogeni possono fare questo effetto.

 

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