Un film che segna una svolta. Importante. Enorme. Nella tecnica narrativa e nel racconto cinematografico. Guardando i trailer avevo già capito che c’erano salti nel tempo, una sorta di flash back continuo fra il presente narrativo e l’allora della narrazione storica, ma non è così. E se c’è qualcuno che lo afferma, non credetegli: è molto di più. Enormemente di più. 'Oppenheimer' di Christopher Nolan segna una svolta nella tecnica di montaggio, che qui segue una traiettoria artistica nella narrazione cui non siamo abituati. Sorprende lo spettatore, lo obbliga ad essere proattivo e a far funzionare il cervello, e viene annunciata già nelle prime scene come una sorta di manifesto programmatico-artistico.
Un colpo d’ala del regista che fa fare un balzo in avanti a tutta la tecnica cinematografica. Ma ci torniamo alla fine, prima il racconto sulla filosofia sottesa alla pellicola.
Oppenheimer è un personaggio emblematico e cruciale della storia contemporanea. A suo tempo, il più famoso scienziato del mondo, quello che aveva dato agli Usa la bomba atomica e aveva contribuito a terminare la Seconda Guerra mondiale contro il Giappone.
Personaggio dalle mille sfaccettature. Con simpatie democratiche che si allungano fino a toccare i lembi del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America (già, sembra un assurdo, ma c’era un PcUSA, andate a ristudiare la storia e capirete quale tragedia fu per quel popolo il maccartismo, una campana a morto per le libertà dei cittadini statunitensi, anzitutto quella di pensare liberamente, da quel momento in poi sequestrate e dirottate ― una volta e per sempre ― verso l’ottuso anticomunismo viscerale).
Scienziato di primissimo livello, Robert Oppenheimer, ebreo, ma soprattutto visionario, e un organizzatore insuperabile di quello che sarebbe stato il primo ed ultimo esperimento per unire straordinarie forze scientifiche, militari e finanziarie. Così imponente da determinare l’apertura del Vaso di Pandora dell’Universo, la scoperta dell’utilizzazione di una energia sovraumana, dovuta alla rottura dei legami interni dell’atomo.
Di contro abbiamo l’infingardo, il nemico apparentemente suo amico, il villain, come in ogni storia che si rispetti. Qui è Lewis Strauss, in corsa per entrare nel governo degli Usa, che gliel’ha giurata a morte a causa di una derisione pubblica infertagli dal più famoso e quotato scienziato del mondo, una sorta di stroncatura insopportabile, da vendicare.
Il film non parla dei pur rilevanti problemi scientifici che alcune migliaia di scienziati, dislocati in quattro siti americani distanti fra loro migliaia di chilometri e convergenti su un quinto sito supersegreto localizzato a Los Alamos (il famoso progetto Manhattan) dovettero affrontare, ma dei problemi sociali, umani, psicologici, storici e soprattutto “politici”, di potere, che si dipanarono intorno al più grande sforzo mai conosciuto dell’umanità per cambiare il corso della sua Storia.
Due miliardi di dollari spesi, 4000 scienziati coinvolti con le loro famiglie, uno sforzo improbo per mantenere il segreto, e la “compartimentazione” dei differenti gruppi di scienziati per evitare fughe di notizie che mal si combinavano con l’attitudine degli scienziati stessi a far da prime donne sempre e ovunque.
E, permettetemi una nota personale, so per esperienza quanto sia difficile tentare di addomesticare due o tre scienziati alla volta, per averlo fatto. Non oso pensare quando di questi tipetti se ne devono trattare centinaia alla volta.
Gestire, anzi: dominare, una simile organizzazione è stato veramente un miracolo, che solo Oppenheimer avrebbe potuto realizzare. Per la sua autorevolezza, per la sua competenza, per la sua capacità visionaria, per la sua lealtà e determinazione al di là ed oltre ogni qualsiasi e ragionevole dubbio al suo Paese.
Tirato sul contrappunto di due “non processi” simmetrici e opposti, quello che vede Oppenheimer messo sotto accusa per i suoi trascorsi di fiancheggiatore dei comunisti nell’epoca della guerra fredda ― accusa infamante ed infangate, che in realtà si riduce alle trame della vendetta privata di Strauss (un “modesto venditore di scarpe” diventato prima manager di scienziati, e poi ancora buttatosi in politica) ― e l’audizione dello stesso Strauss alla commissione valutatrice per una sua possibile candidatura nel governo degli Stati Uniti (lì i candidati ministri vengono rivoltati come un pedalino, prima di assumere una carica istituzionale nel governo, non come da noi, in Italia, che si entra e si esce dalla lista dei ministri qualche frazione di secondo prima che il premier incaricato salga al Quirinale a consegnarla al Presidente della Repubblica), il film approda non all’esito dei due “non-verdetti”, bensì al mistero di una enigmatica frase che Einstein avrebbe rivolto proprio a lui, ad Oppenheimer, mentre l’arcigno Strauss, da lontano, li guardava conversare ma senza riuscire a sentire cosa si dicevano. Equivocando.
Una folata di vento aveva portato il cappello di Einstein a volare incontro a Robert Oppenheimer, e questa scena ritorna ostinatamente nel film, come una goccia che scava nell’invidia rocciosa di Strauss. Che ha il terrore di quello che si possono esser detti le due menti scientifiche più acute del pianeta, escludendolo.
Ed è il vento del terrore che ci portiamo noi dentro.
Le mille sfaccettature di cui parlavo prima non sono solo del personaggio Oppenheimer, come scienziato, come organizzatore, come ― suo malgrado ― anche politico, e finanche combattente antinazista. Ma lo sono anche della storia e della cultura occidentali, che a partire dai primi anni del secolo scorso hanno perduto il concetto di omogeneità e compattezza dell’essere umano per esplodere in mille frammenti dispersi e ormai in allontanamento. Quei frammenti che popolano il cielo stellato e i sogni, o meglio: gli incubi, del protagonista, interpretato magistralmente ed oltre il dicibile da Cillian Murphy, nelle scene forse troppo insistite dell’incipit del film.
Ma proprio nelle scene iniziali troviamo anche il frammento prezioso che dà la chiave di interpretazione della assolutamente innovativa narrazione di Nolan. Vediamo infatti il giovane Oppenheimer alle prese con la cultura occidentale, in Europa, dove passa da cattedra a cattedra delle più prestigiose università del vecchio continente, per conoscere e comprendere tutta la fisica quantistica: Niels Bohr (Kenneth Branagh), Werner Heisenberg, e tutti i grandi scienziati dell’epoca (oltre naturalmente ad Albert Einstein, che è il principale convitato di pietra del progetto Manhattan, e che svolgerà un ruolo silenzioso ma determinante in tutto il film).
Ed in questi frammenti, in alcune scene emblematiche, intravediamo cosa?
Intravediamo la copertina di “The Waste Land”, il poema in versi di T.S. Eliot, che è un programma verso il futuro devastante, e che contiene una pagina fulminante, “Fleba il Fenicio”, che a mio giudizio è in grado squarciare il cielo stellato di tutta la cultura occidentale e di farlo esplodere. Poi vediamo una tela di Picasso, e la vediamo intensamente, con primissimi piani insistiti fin nei dettagli, una tela in cui Robert Oppenheimer si rispecchia per alcuni istanti che sembrano durare un’eternità. E lì che Nolan ci consegna finalmente la chiave per interpretare il suo racconto.
Si tratta della “Femme assise aux bras croises” (1937), coeva del più famoso dipinto di “Guernica”, che esprime non solo una nuova visione artistica, surreale e destrutturata (eppur coerente e comprensibile), ma anche una posizione politica e morale dell’uomo Pablo Picasso di fronte alla Storia, che ne rispecchia e ne immortala momenti drammatici come quelli della Guerra Civile spagnola, una volta e per sempre. Questo è l’Arte. E qui Nolan sembra far propria la visione destrutturata del grande Picasso, o comunque sembra assegnarla come linea guida al ruolo visionario di Robert Oppenheimer.
Guardatelo bene questo volto di donna, guardate bene il quadro di Guernica. E cercate di capirlo nel profondo: non è la realtà, perché non la raffigura ― ed al contempo è proprio la realtà, per come l’artista la vede dentro. Quindi più vera della realtà, più reale del reale, perché è interpretata, e non semplicemente raccontata. Gli occhi, le narici, l’orecchio, le corna, i cavalli, i tori: non stanno dove dovrebbero stare, eppure stanno bene dove stanno, sono gestalticamente “giusti”, in una visione destrutturata e simbolicamente ricostruita e riempita del senso della tragedia, di un atroce bombardamento per Guernica, di una atroce frammentazione per il ritratto introspettivo della “Femme”.
Non a caso la fisica, e soprattutto la meccanica di inizio del secolo, scoprono il paradosso di una materia, di cui si presume sia fatto il mondo, che non si riesce a più a definire e tantomeno a comprendere. È energia? È piena? È vuota? È fatta da forze che si attraggono e si respingono? Sono atomi? Sono legami? Non lo sappiamo più.
Le migliori menti dell’umanità erano al lavoro per definirla, agli inizi del secolo scorso. E quando intuiscono che le forze che legano l’infinitamente piccolo, gli elementi dell’atomo, se scatenate in una reazione a catena possono liberare una potenza distruttrice infinitamente grande, di cui nessuno conosce i limiti ― trovandosi in stato di guerra ― comprendono anche che quella è la strada obbligata, senza ritorno, per riuscire a sconfiggere la bestia nazista e giapponese. Ma anche per il dominio del mondo. O per la sua distruzione totale.
Come costruire una bomba atomica? Una bomba che esploda con certezza?
Oppenheimer ha le idee chiare, e il colonnello che lo assume per conto del governo americano, Leslie Groves (Matt Damon) per guidare il progetto Manhattan, comprende in un attimo che lui, e solo lui, è l’uomo giusto al momento giusto. Meglio: la mente giusta che può dargli il miracolo.
Perché è una guerra di scienza contro scienza Usa-Germania, di “filosofia della fisica” contro “filosofia della fisica”, di ipotesi teoriche contro ipotesi teoriche, di ebreo contro 'ebreo bianco' ― in una parola: di Oppenheimer contro Heisenberg ― dove chi arriva prima annienta l’altro, il nemico, l’avversario, scatenandogli addosso l’inferno nucleare. O annienta, per caso e imprudenza, anche l’intera umanità, se l’energia gli sfugge di mano.
Il film ricostruisce a macchia di leopardo tante facce della storia, anche in minuscoli e apparentemente insignificanti frammenti, e li dispone nel puzzle compositivo in punti strategici, così che i frammenti, presi a se stanti, sembrano fuori posto, ma poi nella narrazione complessiva, invece, sorprendentemente funzionano perfettamente e ridisegnano un quadro complessivo inusitato ma perfettamente intelligibile, e tengono lo spettatore inchiodato sulle spine della sedia. Come appunto in un dipinto di Picasso: un montaggio surrealista, o cubista ― verrebbe da dire ― che però sembra essere il prodromo di una nuova visione del cinema. Meno meccanica, molto più artistica e progettuale.
E Christopher Nolan, oramai maturo ai controlli della regia, a nostro giudizio compie l’ultimo passo per rappresentare ― in un montaggio emblematico e surrealista ― il principale incubo dell’umanità nell’ultimo secolo, quello dell’ecatombe nucleare immortalato e fermato nella Storia del suo straordinario atto di nascita. Resa possibile solo da quell’evento incredibile, che non accadrà mai più nella storia dell’umanità, vale a dire il Progetto Manhattan.
Perché l’umanità potrà esser capace di fare tutto, ma una cosa non sa proprio farla: mettere insieme le menti migliori che possiede per trovare soluzioni reali, per quanto astruse, ai mali che la affliggono. E, aggiungiamo noi, il secondo incubo che si affaccia all’orizzonte può diventare il clima del pianeta.