Una storia di sogni e dolore antica come il mondo, ferocemente uncinata all’oggi delle migrazioni, epica ma tessuta di verità, un’avventura raccontata dal punto di vista di chi sfida la sorte e così immersiva per lo spettatore da fargli sentire i venti sferzanti di questo tempo a orizzonti chiusi per troppi popoli. “Io Capitano” di Matteo Garrone, fresco vincitore a Venezia del Leone d’argento per la regia e del Premio Pasinetti assegnato dai critici cinematografici, racconta la perigliosa Odissea di formazione per deserto e per mare di Seydou, sedicenne senegalese col miraggio dell’Italia. E profuma di grande cinema. Perché ha un compiuto nitore artistico, vibra di cuore e mente, di immagini indelebili, è un film asciutto nel decorso (“Ho scelto la semplicità e la sincerità”, ha detto il regista) e arricchito di garroniani lampi pittorici e svoli onirico-fiabeschi.
Per due ore vediamo cosa vede Seydou, i cadaveri nel deserto, l’accanimento e le torture degli sgherri libici, accompagniamo le sue sofferenze fino alla buona alba che chiude il film, quando questo ragazzo che ci fa trepidare ha appena valicato la linea d’ombra e, ormai adulto per forza degli eventi, vede in lontananza l’approdo siciliano. Ha tenuto la rotta, ha guidato una rugginosa carretta del mare stracolma di vite beccheggianti sui flutti da Tripoli all’Italia e grida “Sono io il Capitano. Sono tutti salvi, non è morto nessuno”.
Seydou (Seydou Sarr, strepitoso esordiente) e il cugino Moussa (Moustapha Fall), suo compagno di ventura, a Dakar non patiscono la fame, non vivono in una zona di guerra, vanno a scuola, hanno un tetto, semplicemente vogliono evadere dai confini stretti di casa. La terra desiderata è l’Italia, dove il primo sogna di diventare un rapper famoso, “così i bianchi ti chiederanno l’autografo”, lo incita il cugino. Orfano di padre, Seydou confessa alla madre (Khady Sy) il suo progetto, ne riceve un divieto: “Devi respirare la stessa aria che respiro io, non puoi abbandonare me e tua sorella”.
Partirà egualmente, ha lavorato come facchino e qualcosa ha messo da parte per il viaggio. Alle spalle il piccolo mondo di casa, caldo e colorato, la sua comunità. Feste e canti tacciono ed è subito polvere e deserto, in un crescendo di richieste di denaro, dal falsificatore dei passaporti indispensabili per entrare in Mali e raggiungere Agadez, crocevia migratorio, al passeur fintamente amichevole che promette la traversata del Sahara fino in Libia sul cassone di un camion (e chi cade fuori è perduto), ma molla Seydou, Moussa e un plotone di disperati in mezzo al nulla. Devono procedere a piedi, fino all’incontro con una ghenga di armati libici che esigono, manco a dirlo, del denaro. Chi paga o in alternativa comunica il telefono di casa così da consentire ai criminali di estorcere ai parenti altri soldi viene lasciato libero, altrimenti si finisce in immondi campi di concentramento, divisi per etnia, a subire botte e torture. Moussa è stato separato dal cugino, si era infilato nel retto un rotolo di banconote, lo hanno scoperto e imprigionato. Dire che anche lo spettatore più pacifico passerebbe volentieri per le armi gli aguzzini libici è superfluo.
La maglia del Barcellona di Seydou si è stinta, la speranza sbiadita. Solo l’umanità non riesce a spegnersi e Garrone ce lo stampa negli occhi con immagini potenti e che richiamano la sua vena fiabesca (“Il racconto dei racconti” del 2015 e “Pinocchio” del 2019). Il ragazzo soccorre una donna dai piedi martoriati in pieno deserto, gli muore tra le braccia: una dolente Pietà. E l’animoso giovane eroe, in un sogno a occhi aperti, se l’immagina subito dopo viva e librata in volo che avanza nel mare di sabbia mentre la tiene per mano. Emozione pura. In seguito, malconcio e ridotto a uno straccio, sognerà nel lager libico di inviare alla madre un piccolo angelo nero di bianco vestito (che bravo il costumista Stefano Ciammitti) perché la rassicuri, in una sorta di Annunciazione del Beato Angelico. Due fiammate ad alto impatto visivo in cui si avverte l’eco profondo, carnale del “Fiore delle Mille e una notte” di Pasolini e il rispetto amorevole del regista per la spiritualità africana. Una donna è ghermita dalla morte, ma un’altra donna, incinta, Seydou riuscirà a salvarla, durante la traversata.
Seydou riesce a uscire dal lager libico grazie a Martin (Issaka Sawagodo), un nuovo, buon padre soccorrevole, diventa muratore come tanti altri migranti finiti nella rete degli schiavisti (quanti palazzi di Tripoli avranno tirato su i migranti dell’Africa nera?), ritrova il cugino e, pur di raggiungere la meta, accetta di pilotare un’orrida bagnarola. In mare completerà il suo viaggio interiore, sempre obbedendo agli intimi calibri, agli imperativi morali che ha scolpiti nell’anima. Viene in mente il Kant della “Ragion Pratica”: “Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”. Il film - che film! - si chiude sugli occhi di Seydou, colmi di pianto e fierezza. Sta per iniziare un altro viaggio nella giungla del mondo.
Dietro “Io Capitano” c’è un enorme lavoro di documentazione, durato anni, sulle rotte dei migranti dall’Africa occidentale all’Europa, Garrone ha raccolto testimonianze, ispirandosi, per il clou del film, alla storia vera di Fofana Amara, un minorenne che aveva condotto una barca dalla Libia all’Italia, dove era stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina finendo in carcere. Scritto in italiano, tradotto in francese, recitato anche in wolof, la lingua madre del 40 per cento dei senegalesi (“Anche senza capire la lingua, sentivo quando la scena era venuta bene, e gli attori avevano dato quello che volevo”), quest’ultimo lavoro del regista romano è “larger than a movie”, più grande di un semplice film, si porta dietro pezzi di “sogni” veri. Seydou Sarr, colpito da una malattia degenerativa agli occhi, una volta terminate le riprese è stato operato e guarito in Italia e adesso vive, con il collega di set Moustapha Fall, a Fregene, nella casa della madre di Garrone. Lo rivedremo sugli schermi, sicuro.
Vincitore del premio speciale della giuria a Cannes nel 2008 con “Gomorra” e nel 2012 con “Reality” (altamente consigliabile, insieme a “Dogman” e a “L’imbalsamatore”, un trittico catturante di vite estreme e desolazione alla periferia, mentale e materiale, della modernità), il regista già aveva puntato l’obiettivo sull'immigrazione agli esordi, con “Terra di mezzo” e “Ospiti”, quest’ultimo parlava di due ragazzi albanesi accolti in casa da un fotografo romano e Garrone in effetti ha ospitato i due a casa per un po’ di tempo: quando l’etica della condivisione non è chiacchiera e distintivo ma sostanza. Chapeau. “Io Capitano”, ben fotografato da Paolo Carnera e sceneggiato dal regista con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini (sì, lui) e Andrea Tagliaferri, è costato 8 milioni di euro, spesi benissimo, ed è prodotto da Archimede, casa di produzione di Garrone, con Rai Cinema, Pathé etc. Distribuisce 01 in 203 copie. Buono a sapersi: il prossimo film di Garrone trarrà spunto dalle “Metamorfosi” di Ovidio. Un’altra sfida, si vede che non gli piace vincere facile.