di
ANDREA ALOI
Alla quinta prova da regista, il monumentale Daniel Auteuil, gloria attoriale di Francia, si cuce addosso un ruolo perfetto e sfodera a 74 anni con “La misura del dubbio” un thriller giudiziario che parte pigro e compassato per crescere in pathos e tensione fino a un paio di colpi di teatro finali ben orchestrati, con piena soddisfazione degli amanti del genere e del cinema confezionato ad arte. In scena un avvocato penalista agli sgoccioli della carriera con uno scheletro professionale nell’armadio della coscienza, un brav’uomo accusato di aver sgozzato come un capretto la moglie alcolista e una giudice implacabile, al servizio di un film con cadenze classiche, nemico degli effetti, ambientato in una provincia francese torpida solo in apparenza, dove i geyser della violenza possono risvegliarsi dopo anni di quiete apparente in un paesaggio umano da giallo-noir che profuma di Simenon.
Mas-Thibert, in piena Camargue, non lontano da Arles. È sera, la Gendarmerie bussa alla porta di Nicolas Milik (Grégory Gadebois), un amorevole padre di famiglia, e lo preleva in modi spicci davanti ai cinque figli piccoli, cui ha appena servito la cena. È accusato dell’omicidio della moglie Cécile e molto congiura contro di lui, dai frequenti litigi con una compagna di vita sempre ubriaca e autodistruttiva ad alcune testimonianze cruciali (o quasi). C’è bisogno di un avvocato d’ufficio e toccherebbe ad Annie Debret (Sidne Babette Knudsen), ex consorte e collega di Jean Monier (Daniel Auteuil), ma lei - sono rimasti in ottimi rapporti - chiede a Jean di sostituirla. Un favore che gli pesa, da quando ha fatto assolvere un colpevolissimo che rimesso in libertà ha continuato a uccidere non si occupa più di cause penali, però appena incontra Nicolas, pacioccone e affranto, il maturo avvocato sente a istinto che è innocente e decide di difenderlo. Sliding doors, il Caso ci domina, non doveva essere lì e invece…
Nonostante l’età, passerà notti in bianco ad esaminare gli atti, sicuramente coinvolto nel brutale assassinio è anche Roger Marton (Gaëtan Roussel), ex militare, proprietario di un bar e soprattutto di un particolare coltello a manico sagomato sulle dita e lama seghettata: la riconosciuta arma del delitto. Un affaire reso ancor più grigio dalla mancanza di prove marmoree a carico di Nicolas. Auteuil modella il suo avvocato giocando in sottrazione, restituendone i rovelli intimi, la fatica di una causa urticante da vincere per riscattarsi, l’ansia di rendere giustizia a un uomo che reputa incapace di compiere un omicidio. Dopo tre anni di carcere preventivo, Milik va a processo in Assise, tre giorni fra escussione dei testi, le urla in aula contro Nicolas della sorella della vittima (Aurore Auteuil, figlia di Daniel), incalzanti domande della pm (Alice Belaïdi) molto concentrate su un filo blu trovato sotto un’unghia della donna uccisa e proveniente da un abito di Nicolas. Ulteriori sospetti erano stati attizzati a inizio indagine da tracce della sua pelle sempre su un’unghia di Cécile. “Avevamo litigato e mi ha graffiato” ha continuato a sostenere il vedovo inconsolabile: “L’amavo, non volevo che si facesse del male con l’alcol, per i figli era importante”. Il barista Roger, che nella sera del crimine era stato visto sobillare Nicolas (“Basta, devi rivoltarti e farla finita se sei un uomo”) una sentenza se l’è già autoinflitta, suicidandosi dietro le sbarre. E il bravo padre di famiglia, cosa diranno la giuria popolare e l’inflessibile giudice (Isabelle Candelier)?
Una curiosità che nessun recensore potrebbe mai soddisfare, pena un deferimento alla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Auteuil manovra bene flashback e pause “paesaggistiche” (ammirevoli) con uso parsimonioso del drone, inserendo, vista la location camarguese, un possente toro da corrida impegnato ad abitare i sonni agitati di Jean Monier, un simbolo a un tempo di paura e sfida. Chissà se gli servirà, a lui avvocato come ai magistrati, per elaborare un lutto connaturato al loro mestiere: l’impossibilità di una giustizia perfetta. Jean, protagonista in aula con un’arringa finale non priva di nobiltà e acume, resterà coi suoi dubbi e ad affliggerlo se ne aggiungeranno di nuovi.
Detto che “La misura del dubbio” è il solito titolo floscio appiccicato dai distributori, stavolta bravissimi a inventarne uno ideale per non essere memorizzato (quando per rendere giustizia al plot bastava mantenere quello originale, “Le fil”, il filo), di sana e robusta costituzione è il film, quasi due ore fluenti e accudite da musiche classiche. Senza pecche il cast, con Grégory Gadebois sugli scudi in compagnia di un Auteuil dolente e misurato, una maschera da cinema che abbiamo imparato ad amare dai tempi di “Un cuore in inverno” di Claude Sautet e “La ragazza sul ponte”, lussuoso bianco e nero di Patrice Leconte, fino alle presenze più recenti, tra commedia e polar.
Dopo i recentissimi “Anatomia di una caduta” e “Il caso Goldman”, con “La misura del dubbio” si torna in un’aula processuale secondo cadenze canoniche, querelle tra accusa e difesa etc: il focus è lì, mentre nel formidabile lavoro di Justine Triet con la maestosa Sandra Hüller il processo è pretesto per lo scavo senza pietà nel conflitto di una coppia in via di sgretolamento, con la famosa verità sempre in bilico, in aula e nella vita. E “Il caso Goldman” di Cèdric Kahn, imperniato sul secondo processo, negli anni Settanta, all’ebreo Pierre Goldman, rivoluzionario e rapinatore, lascia spazio alla Storia, grande macinatrice di esistenze e ad una rivisitazione attenta di anni politicizzati nel segno dell’ideologia.
Il bel lavoro di Auteuil, anche sceneggiatore con Steven Mitz, racconta una vicenda realmente accaduta - l’omicidio di Cécile Milik è del 2017 - e prende spunto da uno dei casi raccolti in “Au Guet-Apens, chroniques de la justice pénale ordinaire” (all’imboscata, cronache della giustizia penale ordinaria) dell’avvocato di Lille Jean-Yves Moyart, nom de plume Maître Mô. Hanno prodotto France 2 Cinéma, Zack Films e Zazi Films, distribuisce BIM.
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