Incentrato sul delicato rapporto tra un padre e una figlia, in “Il tempo che ci vuole” Francesca Comencini racconta le sue complesse esperienze di vita giovanile accanto alla figura del padre Luigi a cui la lega un particolare e tormentato affetto.
È noto come Luigi Comencini sia stato uno dei registi più prolifici, con successi clamorosi e insuccessi altrettanto altisonanti, del cinema italiano del ‘900.
Autore di film leggeri come “Pane, amore e fantasia” (1953) o “Lo scopone scientifico” (1972) e di opere più impegnate tra cui un eccellente “Tutti a casa” (1960) con Alberto Sordi, “La ragazza di Bube” (1963) e “L’ingorgo” (1979), senza trascurare la televisione con i suoi documentari dedicati ai bambini e gli sceneggiati, come si chiamavano allora, del calibro di “Le avventure di Pinocchio” (1972) e “Cuore” (1984).
Quando nasce Francesca, la più piccola delle sue quattro figlie, il regista ha 45 anni. Da subito si instaura tra i due una assoluta complicità che li porta a condividere i giochi dell’infanzia e le prime esperienze scolastiche. Francesca è presente sui set dei film del padre, scorrazza complice durante le riprese di Pinocchio e fa comunella con i giovani attori coinvolti.
Le vicende si complicano con l’avvento dell’adolescenza, sono gli anni così detti di piombo che culminano con il rapimento di Aldo Moro. Alla notizia del fatto, nella classe di liceo di Francesca scoppia un applauso a cui anche la ragazza partecipa.
In quegli anni, soprattutto tra i più giovani, la confusione e lo smarrimento regnano sovrani al punto che la vita di Francesca, malgrado o forse complice l’onnipresenza del padre, prende una piega drammatica.
Entra in scena la droga che, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, ha sostituito per molti, sicuramente non per tutti, gli aneliti della rivolta e degli ideali.
Il percorso della tossicodipendenza, con i suoi riti e con le sue morti, coinvolge anche Francesca che manifesta tutta la sua fragilità. Instabile e insicura, trova contrastato conforto tra le braccia del padre con cui parte in “esilio” per Parigi. I giorni nella capitale francese sono duri per entrambi. Francesca deve elaborare il distacco dalle sostanze, mentre il padre manifesta i primi sintomi del morbo di Parkinson che lo debilitano fisicamente. Nelle passeggiate notturne parigine c’è anche un omaggio a Bernardo Bertolucci e al suo “Ultimo tango a Parigi” per via di un famoso ponte sulla Senna.
Superata la crisi, tra padre e figlia il rapporto sembra rinsaldarsi, il ritorno a Roma segna per entrambi una nuova stagione anche di carattere creativo.
L’intensa esperienza di vita spinge Francesca al suo primo film da regista. Con “Pianoforte” (1984), drammatica vicenda di due giovani tossicodipendenti, chiude definitivamente i conti con il suo passato più recente.
Le ultime immagini del film propongono i due protagonisti sorridenti e ancora una volta complici in occasione della realizzazione di “Marcellino pane e vino” (1991), ultimo film girato da Comencini padre. L’epilogo è affidato a un sogno che forse vuol essere anche un omaggio a “Miracolo a Milano” e al mondo del cinema che spesso gioca tra reale e irreale.
La proposizione “il tempo che ci vuole” è la formula vincente del rapporto padre/figlia. Il padre dedica tutto il tempo che ci vuole per recuperare alla vita la figlia. La figlia si prende il tempo che ci vuole per riafferrare la sua vita.
Film dichiaratamente autobiografico, “Il tempo che ci vuole” scandisce stagioni della vita e della storia attraverso personaggi pubblici che sono anche esposti ai riflettori della scena, quindi una difficoltà in più affrontata con emotività e dosi di introspezione. Per una scelta di scrittura e di regia, manca totalmente la famiglia. Non c’è la madre e non ci sono le tre sorelle, per altro tutte, a livelli diversi, impegnate nel mondo del cinema. La più famosa è sicuramente Cristina per il suo lavoro di regista e di scrittrice, nonché madre di Carlo Calenda (politico) e Giulia Calenda (sceneggiatrice).
Nella grande casa romana con giardino, nelle stanze un po’ spoglie e quasi spartane, si muovono solo Francesca e Luigi. Un rapporto a due, a tratti persino estremizzante, sempre comunque teso in una comunanza di affetti mai totalmente dichiarati o riconosciuti.
La vita “sbagliata” della figlia è forse come un film non riuscito bene.
Empatica la piccola Anna Mangiocavallo che interpreta Francesca da piccola, mentre da adolescente/adulta entra in scena Romana Maggiora Vergano che ha lo spessore sufficiente per dare dimensione al travaglio umano della protagonista.
Discorso a parte per Fabrizio Gifuni che si cala nel personaggio alla perfezione, pur nella rigidità che probabilmente la figura del padre adombrava.
Prendiamoci pure il tempo che ci vuole per comprendere una vicenda che si muove tra le luci e le ombre di un malessere esistenziale pudicamente dichiarato.
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