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LUCI E AMORI
DI MUMBAI
FRA VITE
E SOGNI

di ANDREA ALOI

“Amore a Mumbai” della trentottenne Payal Kapadıya, qui anche sceneggiatrice, è un gioiello d’altri tempi, limpido d’ispirazione e di felice semplicità, così rara al cinema, con una Mumbai al profumo di Parigi e la macchina da presa a inseguire due donne sospese sul filo di sentimenti contrastanti, una con lo sguardo proiettato sul futuro, l’altra dominata dai canoni della tradizione. Sono amiche, sono diverse. Un viaggio al mare, lontano dalla megalopoli, porterà chiarimenti e nuove sfide.



“Anche se vivi nelle fogne non ti è concessa la rabbia, questo è lo spirito di Mumbai”, dice una loro amica mentre sfila una processione in danza per onorare Ganesh, la divinità hindu con la testa di elefante, è la gioia della povera gente. E sono le penombre, i colori e le luci della città con più di dodici milioni di abitanti a far da sterminata quinta per i turbamenti della giovane Anu (Divya Prabha) e della più matura Prabha (Kani Kusruti), infermiere d’ospedale. Anime tremule in mezzo ai grattacieli, arrivate per lavoro da piccole cittadine e villaggi in un mondo urbano in trasformazione che macina giornate frenetiche, fra mercati di strada aperti prima dell’alba e lunghi viaggi in metropolitana. Anu ha temperamento ribelle, insofferente a sedimentati costumi opprimenti, ama riamata un ragazzo musulmano, Shiaz (Hridhu Haroon), e nell’India sovranista e confessionale di Modi è un discreto problema, sua madre le invia dal paese le fotografie di candidati al matrimonio e la tempesta di telefonate per sapere se finalmente ne ha scelto uno.



Prabha ha avuto una sorte peggiore, il suo è stato un matrimonio combinato, senza alternative, non conosceva il futuro marito però col tempo deve essersi affezionata perché ne patisce la lunga assenza. Se n’è andato in Germania non per turismo e dopo un po’ nessuna comunicazione, un pacco anonimo con dentro una vaporiera per il riso - sicuramente è un suo dono - non fa che riattizzare nostalgie e desiderio. Nel reparto di ginecologia dove tiene pure lezioni per le giovani infermiere, ci sarebbe un ottimo partito, il dottor Manoj (Azees Nedumangad), paffutello e simpatico le fa la corte e per compiacerla esegue un’ecografia alla sua gatta incinta: la regista sa alternare i campi orizzontali della città tempestata di luci (“All We Imagine as Light” era il titolo originale, prontamente banalizzato per l’uscita italiana) a carezze intimistiche, un flusso “pizzicato” qua e là da note stranianti di pianoforte sgorganti come ruscelli, molto Nouvelle Vague. Manoj ha l’aria del brav’uomo, fa sul serio ma Prabha rilutta, si sente ancora legata al marito.



Intanto l’intraprendente Anu stufa di bacetti e strusci, si prepara a raggiungere Shiaz straordinariamente con casa libera per andare un po’ più sul concreto e dovendo recarsi in un quartiere musulmano si traveste da modesta devota con l’hijhab e l’abaya, la lunga tunica nera. Niente da fare, la casa non è più disponibile, hijhab e abaya finiscono nella spazzatura (immagine per nulla neutra) ma spunta un’altra occasione con l’amica Parvaty (Chhaya Kadam). Cuoca nell’ospedale di Anu e Prabha, da più di vent’anni vive a Mumbai e pensa di tornare al suo villaggio, nella regione di Ratnagiri. A breve deve lasciare casa, il suo palazzo, destinato in passato agli operai dei cotonifici, ormai chiusi, va demolito per lasciar posto a un condominio di lusso firmato Class, slogan su un cartellone pubblicitario: un privilegio destinato a privilegiati. Si chiama gentrificazione, grosso problema abbastanza universale. Dal caos policromo di Mumbai alla riva del mare, Parvaty ospita per qualche giorno Anu, seguita di nascosto da Shiaz, e Prabha. Tra fantasmi maritali che compaiono e svaniscono, giovani corpi in dolce armonia e tramonti placidi, si annusa aria di cambiamenti.



“Amore a Mumbai”, coprodotto tra India, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo e Italia, ha conquistato a Cannes il Gran Premio Speciale della Giuria, una riconferma per Payal Kapadıya che già nel 2021 aveva ottenuto alla Quinzaine des Réalisateurs il Golden Eye per il miglior documentario col suo primo lungometraggio, “A Night of Knowing Nothing”, dove raccontava il movimento degli studenti universitari indiani e l’amore impossibile fra due ragazzi, un film ibrido, a cavallo di fiction e doc, del resto pure quest’ultimo gioca molto su riprese della città al naturale che contestualizzano le vicissitudini di Anu e Prabha esaltando il loro spessore universale.



Da sottolineare le buone prove di Clément Pintax al montaggio e Dhritiman Das alle musiche. I 110 minuti di “Amore a Mumbai” sono distribuiti da BIM.

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