Cinema e mafia è un connubio forte che periodicamente viene rivisitato e adattato agli ultimi avvenimenti della cronaca.
La fine della lunghissima latitanza di Matteo Messina Denaro, considerato appunto l’ultimo padrino, non poteva sfuggire agli interessi spettacolari del grande schermo che, grazie a due registi in parte atipici e a un cast di tutto rispetto, si misurano con una vicenda che naviga volutamente tra il detto e il non detto, tra vita e sogno, tra realtà e irrealtà, come avvertono gli stessi titoli di testa.
Sottoposto ai riti di iniziazione all’età adulta da parte del padre Gaetano, uomo di potere, il piccolo Matteo viene instradato sul percorso che la tradizione vuole venga riservato ai rampolli delle famiglie mafiose.
Da “qualche parte in Sicilia”, intorno all’anno 2000, Matteo (Elio Germano) vive ormai in latitanza, nascosto in un covo costruito ad hoc da complici compiacenti che gli garantiscono protezione e i necessari collegamenti con il mondo esterno. Da lì, accudito da una premurosa signora (Barbora Bobulova) tesse le sue trame, inviando “pizzini” urbi et orbi, come si conviene a un mafioso di tale rango.
Matteo è formale, maniacale, rassegnato al limite di libertà a cui il suo ruolo lo costringe.
In una vicenda parallela, i Servizi segreti, diretti da un colonnello (Fausto Russo Alesi) che fa dell’ambiguità il suo vessillo, costringono tale Catello Palumbo (Toni Servillo), originario di Castellammare di Stabia come tiene a precisare, a collaborare con loro per stanare il latitante.
Catello, politico lestofante di mezza tacca, detto “Il preside” per via del suo ruolo nel mondo della scuola, è appena uscito dal carcere dove era finito per malefatte varie (impicci tipo corruzione e affini).
In passato, però, il personaggio, amico del padre di Matteo, era stato padrino di cresima del ragazzo.
In questa veste, su suggerimento dei Servizi stessi, instaura un rapporto di corrispondenza epistolare con il latitante, attraverso il quale le acque sembrano smuoversi.
Se la fine (di Matteo Messina Denaro) è nota alla cronaca, il film introduce elementi di dubbio sui suoi reali rapporti con il potere costituito.
Qualcuno che conta sembra persino adombrare che i Servizi potessero e non volessero intervenire, in una cinica ricerca di equilibrio nel controllo del territorio.
“Iddu-L’ultimo padrino” non aggiunge molto a quanto già il cinema ha dedicato al tema mafia. Non mancano trame di potere, efferati delitti ed esecuzioni esemplari. C’è molto déjà vu e molto compiacimento narrativo malgrado la disponibilità di un cast di altissimo livello.
Su tutti Toni Servillo, perfetto nel ricamare i tratti di un piccolo malavitoso spinto dalla voglia di rivalsa personale, in perenne conflitto con la sua pavidità e la sua impotenza.
Elio Germano è forse un po’ statico, quasi fosse frenato dalla claustrofobia e dall’ineluttabilità del destino.
Spumeggiante la presenza di Betty Pedrazzi nella parte della moglie di Catello.
Nell’indifferenza di altri interpreti, resta un mistero il ruolo insignificante in cui è sacrificato Tommaso Ragno e quanto meno improbabile l’accento veneto a cui è costretto Fausto Russo Alesi, per altro super truccato.
I registi Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, pur non biasimevoli, hanno forse perso un’ottima occasione di fare un film di quelli che lasciano il segno. Musiche di Colapesce e fotografia di Luca Bigazzi a cui il cinema italiano deve sempre e comunque molto.
p.s. Il banale sottotitolo “L’ultimo padrino” ci poteva forse essere risparmiato.
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