di
ANDREA ALOI
Senza santificazioni, ma con empatia, Andrea Segre rilegge cinque anni cruciali, dal ’73 al ’78, dell’alta, nobile vicenda politica di Enrico Berlinguer (lo interpreta Elio Germano) e del suo pathos umano nelle visite in fabbrica, solidale con un’occupazione di terreni da sottrarre alle grinfie speculative, vibrante durante i comizi davanti a oceani di militanti, nel nido familiare così saldo e innervato d’amore per la moglie Letizia e i quattro figli. Il box office sorride e ci sarà pure un motivo se la figura di Berlinguer emoziona ancora, suscita rispetto e incuriosisce pure chi ne ha solo letto o sentito parlare a scuola e forse quel motivo si chiama orizzonte di speranza, consapevolezza d'un impegno collettivo per dare corpo e linfa nuova a questo nostro Paese così meraviglioso e complicato.
Berlinguer custodiva valori, una “diversità”, la testimoniava magnetizzando la fiducia di milioni di elettori. Regalava loro la vita: dicono tutto la lettera scritta alla moglie (Elena Radonicich) per scusarsi del tempo che i doveri della politica hanno sottratto a lei e ai bambini e la morte prematura dopo il malore a Padova dell’84, durante un comizio: proprio quarant’anni fa. C’è dentro una delle più importanti chiavi di lettura del film, sceneggiato dallo stesso Segre con Marco Pettenello e la consulenza storica di Miguel Gotor.
“Berlinguer. La grande ambizione” - grandissima in realtà - a spiegare il tentativo di avviare con il compromesso storico il Pci sulla strada della collaborazione governativa con l’eterna nemica, la Democrazia Cristiana. Per consolidare il tessuto democratico, spostare in avanti, verso nuovi obiettivi sociali, gli equilibri di potere. Una “missione” mal tollerata dai settori più tradizionalisti e qualche volta schiettamente reazionari della Dc, giusto ai tempi del referendum per il mantenimento della legge sul divorzio (maggio ’74). Una svolta chiaramente osteggiata dagli Stati Uniti, freschi reduci di ingerenze nel golpe cileno del settembre ’73 e sull'opposto versante dall’Unione Sovietica. Per non dire degli scettici tra sinistra Pci ed extraparlamentare, che equiparavano (ed è una lettura ancora presente) il compromesso storico alla svendita di un patrimonio politico. Ma se era così, un brodino autolesionista, perché tanti cosiddetti “poteri forti” l’hanno temuto e avversato?
Il film di Segre non ha tesi da sostenere, racconta un torno di tempo, chiuso dal rapimento e assassinio di Aldo Moro, arrivato a segnare il futuro della Repubblica, partendo dal viaggio in Bulgaria, giusto un mese dopo la la tragica fine di Allende. A Sofia Berlinguer ha colloqui, come usa dire, franchi con il collega bulgaro Todor Zivkov, che proprio non può digerire le parole del segretario Pci - già fermamente critico dell’invasione di Praga - sulla necessità di coniugare giustizia sociale e libertà fondamentali. Lungo lo stradone che conduce all’aeroporto, un camion investe l’auto su cui viaggia il segretario generale del Pci, muore l’interprete. Enrico, lievemente ferito, rifiuta le cure e rientra immediatamente a Roma. Attentato? Sì, ma poco o nulla trapela, i legami col fronte sovietico sono già abbastanza logori, pende la questione dei finanziamenti dall’Urss.
Berlinguer inizia ad affrontarla spostando in una posizione più defilata Armando Cossutta, trait d’union politico col regime, ai tempi, di Breznev. Il film ci fa entrare nella sala comando del Pci, presenti il braccio destro di Enrico, ovvero Antonio Tatò (Pierluigi Corallo), Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), contrario alla strategia del compromesso storico. Tra gli altri, sarà Luciano Barca (Andrea Pennacchi) a dare a Berlinguer la notizia della strage in Piazza Della Loggia a Brescia, Ugo Pecchioli (Paolo Calabresi) a ragguagliarlo sugli sviluppi del rapimento Moro, mafia e terrorismo erano di sua competenza, un compito svolto con tutta la riservatezza necessaria. Mentre Gianni Cervetti (Lucio Patané) accompagnerà Berlinguer a Mosca al XXV congresso del Pcus del marzo ’76, alla vigilia dell’avanzata elettorale del Pci nel giugno successivo: alla Camera, 12 milioni e 600 mila voti, il 34,3 per cento dei suffragi. Il regista sottolinea la freddezza di Breznev, per nulla incline ad approvare i nuovi accenti di Berlinguer sul ruolo di un’Europa unita nella democrazia.
Il 1976 è pure l’anno della famosa intervista a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera, passata alla storia per l’“ombrello Nato” che rendeva più tranquillo il segretario del Pci, a lungo spacciata come un inchino all’ “imperialismo”. Tanto per chiarire, alla domanda se temeva di far la fine del cecoslovacco Dubcek, Berlinguer aveva risposto: “Noi siamo in un’altra area del mondo (…) non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss.. (…) Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua”. Per concludere con le parole richiamate nel film: “All’Est vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro”, in Occidente “alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà”. Dose rincarata, a stretto giro, in tv: “Questo Patto Atlantico che viene presentato come scudo di libertà è un patto che ha tollerato per anni la Grecia fascista, il Portogallo fascista”.
Dopo il Cile, davanti alle stragi nere e alle complicità dei nostri servizi segreti, Berlinguer teme derive di destra anche in Italia, punta a costruire un antemurale invalicabile per qualsiasi tentazione eversiva e vede in Aldo Moro un possibile alleato. Vorrebbe accelerare i tempi, il presidente della Dc (Roberto Citran, in una convincente caratterizzazione, anche se il il Moro di Gifuni in “Esterno notte” di Bellocchio rimane inarrivabile) predica pazienza, conscio del magma correntizio che ha in casa. La sua eliminazione sigla un vero e proprio golpe italiano e lì, 9 maggio ’78, si ferma un film di compiuta armonia compositiva, grazie anche ai brani d’epoca focalizzati sulla gente ai comizi, i volti, le attese, le bandiere, gli sguardi attenti.
Un’altra “grande ambizione” del segretario del maggior partito comunista europeo era quella di conciliare pubblico e privato, le vacanze a Stintino, la comunione familiare, solida nonostante gli impegni, la complicità coi figli. Di Berlinguer fa capolino l’ironia, come quando si ricorda dove aveva nascosto una banconota da cinquantamila lire: in un libro di Rosa Luxemburg. E scherza sul titolo: “L’accumulazione del capitale”, a quei tempi con la politica onesta non si diventava ricchi. Sono note intime e fanno risaltare l’intelligente interpretazione di Elio Germano, dopo il trasformismo con Ligabue, Leopardi e Matteo Messina Denaro è un Berlinguer credibile per voce e postura senza diventarne un clone attraverso il trucco come il Craxi di Favino in “Hammamet”. Calibrate a dovere nella narrazione le musiche di iosonouncane, alias del sardo Jacopo Incani, un maestro con campionatore e sintetizzatore. La fotografia di Benoît Dervaux e la scenografia di Alessandro Vannucci assecondano a dovere l’ambientazione storica.
Andrea Segre da sempre lavora tra doc (“Mare chiuso” sull’odissea di duemila africani respinti in Libia nel 2010) e fiction (“L’ordine delle cose”: un uomo diviso, da una parte le ragioni dell’umanità, dall'altra il dovere di funzionario anti-immigrazione), in un percorso coerente di riflessione/denuncia cinematograficamente pulsante che lo avvicina a Daniele Vicari. Questa prima sortita storica gli è riuscita bene. Le due ore di “Berlinguer. La grande ambizione” nascono da una coproduzione tra Belgio, Bulgaria e Italia con Raicinema e Ministero Cultura. Distribuisce Lucky Red.
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