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PARTHENOPE
TERRA MADRE
UNA SULFUREA
CALLIGRAFIA

di ANDREA ALOI

Tre anni fa, nell’autobiografico “È stata la mano di Dio”, il giovane Fabietto varcava la linea d'ombra lasciando Napoli per Roma, così come Moraldo nei “Vitelloni” di Fellini usciva dai confini spinati della piccola città di mare. Paolo Sorrentino torna ora con “Parthenope” - firma anche soggetto e sceneggiatura - nella culla dei suoi sentimenti profondi e attraversa la città delle vertiginose bellezze e dei più o meno consapevoli sfasci civili e morali con gli occhi spalancati di una fanciulla ben nata e di stregante grazia muliebre, venuta al mondo nel mare davanti casa, anno 1950. Parthenope l’hanno battezzata, come la mitica sirena-dea protettrice della capitale del Sud, creatura doppia, lasciva e malinconica, nell’etimo greco “colei che appare come una vergine”. E tale rimane, interiormente pura nonostante esplori ogni piacere, l’altera ragazza (l’interpreta una luminosa Celeste Dalla Porta), figlia di Sasà (Lorenzo Gleijeses), strettissimo collaboratore dell’armatore Achille Lauro, dominus politico nella Napoli del dopoguerra.



“A Napoli c’è sempre posto per tutto”, si dice nel film e Sorrentino la elegge simbolo universale dell’umana fragilità, della vita che scorre come un torrente di letizie e graffi e qualche volta raggiunge il mare della consapevolezza. Così succederà a Parthenope, che prima vive l’estate perfetta - e per questo nostalgicamente irripetibile - in vacanza a Capri, morbidamente divisa tra il fratello amante Armando (Daniele Rienzo) e l’innamoratissimo amico Sandrino (bravo Dario Aita). Il suicidio di Armando sigilla proprio il precario dondolare tra l’incanto del luogo e tutto l’apparato delle miserabilità umane (e borghesi) che segna questo decimo lungometraggio di Sorrentino.



Parthenope sbanda per il lutto, vorrebbe diventare attrice e chiede consigli a una diva sfibrata dagli anni, Flora Malva (Isabella Ferrari), pronta a disilluderla. L’incontro col professor Marotta (Silvio Orlando, strepitoso), severo barone sulla cattedra di Antropologia, è la svolta del destino e insieme la scintilla del film, il suo centro pulsante, grazie pure ai superbi dialoghi tra i due. La sirena, rispecchiandosi nell’apparente durezza dello smagato docente, darà corpo anche ai propri talenti intellettuali e, dopo aver percorso Napoli dai bassi ai palazzi e aver incrociato ogni genere di fauna umana, lascerà quel mondo e terrà cattedra a Trento per quarant’anni, tornando nella piccola grande patria sul golfo appena pensionata. Stefania Sandrelli la disegna donna matura, senza rimpianti (“è l'ultima cosa che si impara quando è venuto a mancare tutto il resto”). Con un sorriso che è consolazione per chi la guarda, lì sul lungomare, mentre passa una “nave dei folli” tinta d’azzurro e immersa nei fumogeni: il Napoli ha vinto il suo terzo scudetto e la città grida di riconoscenza e amore. La “sigla di chiusura”, assai lirica, è "Che cosa c'è" di Gino Paoli, a fare da fil rouge la commovente “Era tutto previsto” di Cocciante,insieme a “E si' arrivata pure tu” di Valerio Piccolo e "Napoletana" e "Popularia" di Enzo Avitabile: una colonna sonora carezzevole, curata da Lele Marchitelli.



Parthenope è forse uno dei personaggi più strutturati e potenti mai evocati da Sorrentino, una figura femminile inedita quanto conturbante, di quelle che al cinema si vedono sempre più raramente e sia dato onore al merito attoriale di Celeste Dalla Porta. Proprio lei, a dispetto del nome, è la meno partenopea del mazzo, sa essere fredda e razionale, cresce e invecchia a ciglio asciutto consapevole del magico tranello che è la vita, non ha nostalgia perché ha imparato dal professor Marotta a vedere gli uomini per ciò che sono, senza velami religiosi o pregiudizi: quella è l’antropologia. Tra i due matura una consonanza affettuosa, lui le svela le origini di un dolore infine accettato, mostrandole il figlio, un monstrum nel senso di creatura inconcepibile. E lasciamo allo spettatore la scoperta. Non per caso “Parthenope” si apre con una citazione da “Guerra” di Céline: “Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.



Delle due ore abbondanti di film, la prima cammina lentamente. E all’inizio lascia un po’ sorpresi una sfilata al ralenti di belle donne e bei figlioli (in abiti  Saint Laurent s’immagina, dato che la griffe è tra i produttori del film e Anthony Vaccarello, direttore creativo della casa ha collaborato col regista) che trova corrispettivo nell’incedere ieratico e sensuale di Parthenope fra tende che si gonfiano al vento e un mare, da Napoli a Capri, di assoluta, “eccessiva” bellezza. Si avverte forte l’eco di “Ferito a morte” di La Capria (Napoli “ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”) e una cert’aria internazionalmente sofisticata e intimista alla Guadagnino con lo scrittore John Cheever (Gary Oldman), classicamente murato - alla Hemingway o alla Malcolm Lowry - in un malessere esistenziale immedicabile: ama le donne ma non è insensibile al fascino maschile, mentre per Parthenope la bisessualità non è un problema. E per qualche istante, tale è l’imprinting visivo di quei luoghi incantati, aleggiano i ben noti spot capresi per un profumo di Dolce & Gabbana.



Sorrentino, ottimamente assecondato dalla fotografia di Daria D’Antonio, ritrova nel prosieguo del film gli abituali umori grotteschi, sulfurei, barocchi. Sono il bagaglio con cui viaggia negli stereotipi napoletani, dai bassi zeppi di guaglioni coi materassi per terra e di un popolo reverente verso l’uomo di panza (Marlon Joubert) che fa da guida a Parthenope fino agli eccessi del tifo. Complice è il regista con gli entusiasmi pallonari, disarmato ma feroce nella scena del patto tra le famiglie di camorra Criscuolo e Casamicciola siglato dalla copula in pubblico dei promessi sposi, una costrizione oscena e violenta per il ragazzo e la ragazza che ricorda il “Salò” pasoliniano. Non meno cruda è l’invettiva che Sorrentino mette in bocca a Greta Cool (Luisa Ranieri), famosa attrice tornata in città per partecipare a un evento dietro compenso: si scatena in una litania di sprezzanti insulti a Napoli, alla sua gente di ogni ceto. Uno sfogo in piena di odio-amore come quello di Monty Brogan (Edward Norton) contro New York nella “25a ora” di Spike Lee. 



Dopo un’autocitazione nella festa a palazzo (cfr “Il Divo”) in concomitanza con il rito dello scioglimento - stavolta mancato - del sangue di San Gennaro, arriva un altro classico sorrentiniano, la sferzata al potere ecclesiastico, al suo apparato emozionale intriso di umori funebri, superstizione e ipocrisia. Parthenope viene accompagnata dal vescovo (Peppe Lanzetta)  in un’esplorazione notturna al tesoro del santo, il laido ecclesiastico e eccellente seduttore l’agghinda di gioielli inestimabili e, dopo aver denunciato un senso di colpa che non dev’essere così urticante, ci amoreggia. Il Vescovo ha i capelli tinti e maneggia il Sacro per mestiere, smagato e diabolicamente acuto. Come il don Pizzarro di Corrado Guzzanti, prende la sua recita sul serio.



A margine. Sorrentino sta a Napoli come Fellini a Roma, ha detto qualcuno. No, Napoli per il regista del Vomero è la Terra Madre, fin dal primo lungometraggio, “L’uomo in più” e l’equivalente felliniano è piuttosto la Rimini di “Amarcord”, è la provincia dei “Vitelloni”, mentre Roma è per entrambi una quinta, ora mirabile ora marcescente, un bestiario. Curioso, il film di Fellini si apre proprio con l’elezione sulla spiaggia di Miss Sirena 1953. Avesse partecipato la nostra Parthenope, avrebbe vinto in souplesse.

Il film (budget sui 26 milioni euro) è prodotto da Fremantle, Pathé, The Apartment , A24 e, come detto, Saint Laurent Productions. Distribuisce Piper Film. 

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