«Súbito andarono, e giunser vicino ai Lotòfagi. E questi non macchinarono danno veruno ai diletti compagni: anzi, cibare i frutti soavi li fecer del loto. E chi d’essi gustava quel frutto piú dolce del miele, piú non voleva tornare, recar non voleva il messaggio; ma rimanere lí volea coi Lotòfagi, e loto perennemente gustare, né darsi pensier del ritorno.»
Dal cuore più profondo delle Pelagie, la linea salata che separa l’Europa meridionale dal nord Africa, le coste tunisine appaiono come un miraggio. Se siete sul ponte di una nave l’impressione è quella di trovarvi di fronte a qualcosa di straniante. Mare e sabbia, rocce e risacche, maree e onde sembrano arti di un corpo indefinito. L’Africa bianca è un enigma senza soluzione. Un’aporia contro la quale s’arena ogni forma di ragionamento.
È proprio qui, su queste sabbie suadenti e magnetiche, che il mal d’Africa inizia a manifestare i suoi primi sintomi. Vi trovate di fronte a una porta che inghiotte per spingervi nel ventre più inaccessibile del continente nero. Nessuno, se non nel secolo appena trascorso, aveva mai osato andare oltre. Qui ci troviamo al confine, all’ «Hic sunt leones» che spaventò persino gli indomiti romani. Questo timore di sabbia e caldo infernale ha costretto gli uomini a piantare semi di civiltà sulla costa. A tu per tu col mare.
Così hanno fatto i berberi, i popoli più antichi del Maghreb, e assieme a loro Fenici, Greci, i Romani appunto, e poi gli Arabi. Dalla Tunisia all’Egitto un susseguirsi di città e colonie, lingue e popoli che hanno dato forma a una cultura variegata e coltissima.
Da Djerba, l’isolotto tra il golfo di Gabés e la Sirte, fino alle colonie greche di Cirene e Apollonia passando per la punico-romana Leptis Magna. Eppure questo suolo, prima ancora che venisse gonfiato dalla retorica imperialista di Mussolini, invitava i naviganti a sostare. È come un vento caldo che vi accarezza la faccia, più mieloso di un canto. Ed è stato un vento simile, forse, a spingere verso questi lidi le navi di Ulisse.
Doppiato il Capo Malea, e dopo essere scampati alla terra ostile dei Cìconi, ecco che il distruttore di Troia approda in queste terre. Qui Omero ci racconta dei Lotofagi, un popolo pacifico e imbelle, dedito alla coltivazione del Loto, il frutto che induceva all’oblio. Ma chi erano questi Lotofagi? Sono davvero esistiti o al contrario sono soltanto un’invenzione dell’aedo? E il Loto? Si tratta di un fiore oppure di una non ben precisata sostanza narcotica?
Cominciamo dalla terra dei Lotofagi. Secondo recenti ipotesi, tra queste quella prodotta da Armin Wolf nel libro «Ulisse in Italia», i Lotofagi avrebbero abitato la zona circostante Djerba. Lo dimostrerebbero alcuni preziose indicazioni, come i fondali e i tratti costieri bassi e sabbiosi, descritti dallo stesso Omero. La cosa interessante, però, è il fatto che i Greci avessero conoscenza abbastanza approfondita del nord Africa. Basti pensare alle colonie di Cirene e Apollonia fondate fin dalla seconda metà del VII a.C. Questo dato è molto importante perché coevo, stando alle teorie più accreditate, proprio alla stesura dell’Odissea. Il poema sarebbe dunque una fotografia "in presa diretta" di racconti e testimonianze che i coloni greci portavano con sé da quel Mediterraneo in piena esplorazione. Al di là della presenza coloniale l’archeologia ha ampiamente dimostrato quanto in quest’epoca fossero intensi i contatti con le genti fenicie attestate proprio nel distretto dei Lotofagi.
Per questo motivo non sarebbe così azzardato vedere nel racconto omerico dei Lotofagi la rielaborazione in chiave mitico-poetica di popoli che i coloni greci, così come quelli fenici, avevano effettivamente incontrato durante le loro frequentazioni della fascia costiera libica e tunisina.
Sul loto, il fiore dell’oblio, la questione è di più difficile risoluzione. Le parole di Omero dicono di un frutto dolcissimo che portava all’oblio. Tuttavia, sul frutto più dolce del miele si è interrogato anche Erodoto, storico vissuto nel V sec. a.C. Erodoto evidenzia che il frutto non andava confuso con quello che cresceva in Egitto nel corso delle inondazioni del Nilo. Se si accetta la localizzazione dei Lotofagi intorno a Djerba, il loto di cui ci parla Omero sarebbe da associare dunque allo Ziziphus Vulgaris, ovvero l’albero di Giuggiuolo, assai spinoso e le cui bacche erano presenti in abbondanza proprio in queste terre. In quest’ottica lo stesso Erodoto fornirebbe un’indicazione decisiva: lo storico infatti parla di un vino ricavato dal frutto del Giuggiolo dal sapore dolcissimo che andava consumato nell’arco di due o tre giorni. Fate un po’ voi…
Non sappiamo quale sostanza abbia indotto i compagni di Ulisse a dimenticare la patria e i compagni. Se un fiore dal potere narcotizzante o un vino così potente da stordire i sensi. Sappiamo però che l’effetto mellifluo delle terre antistanti le Pelagie continua ad esercitare ancora oggi una forza impressionante. Da una parte il suono del mare che muore sulle coste basse e innocue; dall’altro il silenzio delle dune che già annunciano la maestosità del Sahara. Non si possono volgere le spalle a questi lidi senza lasciare un pezzo di se stessi, senza venirne soggiogati e cambiati per sempre. Proprio come è accaduto ad Ulisse e ai suoi sventurati compagni.
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