Capito a Palermo a dieci anni di distanza dall’ultima volta. L’occasione è un incontro di formazione organizzato dall’ordine dei giornalisti. Mi aspetto un incontro fiume e invece, con sorpresa, in tarda mattinata tutto è finito. Mi intrattengo con alcuni colleghi siciliani (due per l’esattezza: Pino di Mondello e Andrea che invece viene da Trapani) e mi scappa di confidare loro che conosco assai poco la zona intorno a Trapani.
Andrea, con un sorriso di stupore misto a una gioia improvvisa, mi chiede quanto tempo ho a disposizione. E io ancora più felice di lui gli dico che il volo per Napoli è fissato al giorno dopo. Mi prende sottobraccio e mi dice: «Amunì, che mo ti ci porto io».
Dopo pochi minuti si presenta davanti all’albergo dove si era tenuto il convegno con una Fiat Panda blu metallizzata di una bruttezza inenarrabile e che solo un miracolo tiene in piedi. Ma mai giudicare dalle apparenze, perché la Panda di Andrea sguscia via che è una bellezza e fa il suo dovere coprendo con scioltezza il tragitto di un’ora e mezza che separa Palermo da Trapani. In realtà Andrea non mi ha portato proprio a Trapani. Ci siamo fermati alle porte della città, lontani ormai dalla strada principale.
«Questa la devi proprio vedere», mi dice sporgendosi dal finestrino. Davanti a noi si apre un sentiero sterrato e scosceso, irto come una salita che sembra farci sprofondare direttamente all’inferno. Ancora una volta le apparenze ingannano. La giornata è limpida, pulita come il cielo di nuvole siciliane che si perde all’orizzonte. Dopo una scarpinata durata mezzora arriviamo in cima.
Ed è il paradiso. Con un ampio gesto, alla stregua di un antico visir, Andrea mi mostra quello che si impone alla nostra vista: la rocca di Erice. E non dice più niente. Mi manca l’aria e non è per il caldo. La rocca, abitata dall’uomo fin dall’epoca del bronzo, assomiglia a un trampolino a contatto con il cielo e i suoi misteri. Da quest’altura, che sfiora gli ottocento metri di altezza sul livello del mare, la Sicilia appare come una miniatura. Saliamo sul punto più alto della rocca, tra le strida di uccelli e una brezza fresca che spira da ovest, fino a raggiungere la vetta. Sento il bisogno di fermarmi e assaporare quello che il vento e la natura mi stanno restituendo.
La giornata, sgombra di nuvole e malumori, disegna con nitidezza i lineamenti di questo angolo di Sicilia. Trapani, subito sotto la rocca
di Erice, generosa città di pescatori e le Egadi che sembrano gioielli di un unico diadema; l’incredibile tappeto verde che porta fino alla Riserva
Naturale dello Stagnone (tanto bella da annullare ogni patimento) e poi Marsala e la sua spalla di roccia che forma il promontorio di Capo Lilibeo,
uno dei tre vertici dell’isola che insieme a capo Peloro (Messina) e a capo Passero (Siracusa) definiscono il meraviglioso triangolo dell’antica Trinacria.
Sospeso tra terra e cielo, con Andrea immerso nel silenzio più completo, affiorano dalle mie reminiscenze di studente universitario una manciata di versi dell’Odissea.
«E là, quando entrammo nel porto che ha d’intorno una roccia scoscesa senza interruzione da una parte e dall’altra e promontori sporgenti all’imboccatura avanzano sulle acque l’uno di fronte all’altro, e stretta è l’entrata: là tutti i compagni tenevano dentro le navi ricurve… Io solo tenni la nave nera fuori… e ne legavo gli ormeggi alla roccia. Allora giunsero i Lestrigoni ed opposero resistenza contro gli intrusi: essi dalle rupi scagliavano giù macigni enormi… E come pesci li infilzavano e se li portavano via per un orrendo pasto. Mentre li uccidevano così dentro il porto profondo, io mi trassi di fianco la spada e tagliai gli ormeggi della nave. E subito ai miei compagni ordinai di buttarsi sui remi e li incitavo, se volevano sfuggire alla sventura. Essi tutti sollevarono l’onda… Con impeto la mia nave fuggì in alto mare, via dalle pietre che incombevano ma le altre furono distrutte là tutte insieme.»
Nella tappa precedente del nostro viaggio abbiamo lasciato Ulisse e i suoi compagni sull’isola di Malta, identificata sia grazie allo schema delle correnti e dei venti ma anche alle evidenze archeologiche presenti sull’isola. Dopo la tempesta causata dall’apertura dell’otre e dal ritorno sull’isola del «custode dei venti» Odisseo è costretto a riprendere il mare. Davanti a lui la strada appare obbligata: a sud/sud-ovest abitano i Lotofagi e i Ciclopi che sono nemici; a est verso Malta e Itaca i venti spirano contrari e il rischio mortale di una nuova tempesta è troppo alto. Per questo, da marinaio accorto, Ulisse è costretto a seguire la corrente in direzione nord/nord-ovest, e su questa rotta la terra più vicina è la Sicilia, la sola terra che si può scorgere da Malta nelle giornate nitide. A seguito della tempesta le vele erano state danneggiate e la nave doveva procedere con forza di braccia e remi.
Su questa rotta nord-ovest una nave a remi viene portata fino alla punta occidentale della Sicilia, ma non oltre verso ovest, perché poi le si oppone la corrente principale del Mediterraneo. Ritorniamo alle parole di Omero. L’episodio dei Lestrigoni è contenuto nel libro X dell’Odissea. Rileggendo la descrizione dell’aedo è incredibile, ancora una volta, quanto le sue parole aderiscano al paesaggio che mi si para davanti. La «roccia scoscesa» e «l’alta roccaforte» sono il ritratto fedele della rocca di Erice mentre il porto con l’imboccatura stretta e con soli due ingressi sembrano ricalcare proprio lo Stagnone di Marsala. Un luogo quest’ultimo ideale per tagliare la ritirata ai nemici, vista la sua stretta insenatura.
Mettiamoci per un momento negli occhi di Ulisse e dei suoi compagni. La nave proviene da sud: portata dai venti in direzione nord-ovest e doppiato il capo Lilibeo, davanti a loro si apre lo specchio d’acqua con l’Isola Grande e lo Stagnone. Se è giusta l’identificazione di questi luoghi come patria dei Lestrigoni, il «porto glorioso» di cui parla Omero non può essere che l’isoletta di Mozia dove i fenici fondarono una colonia e un bacino portuale collegato alla terraferma da un canale nel punto più inaccessibile e stretto dello Stagnone. Ed è qui che la parte restante della flotta, attirata come mosche su un secchio di latte, venne annientata dai massi lanciati dalle alture circostanti.
I Lestrigoni in Omero vengono associati a giganti ma è probabile che questo vada spiegato con la prospettiva dei Greci dal basso rispetto a questi uomini che dalle varie rocche (come quella di Erice) scagliavano pietre e massi. C’è un altro dato interessante. Omero, per la distruzione delle navi attirate nella baia dello Stagnone, utilizza l’espressione «infilzare come pesci». Una circostanza che costituisce una similitudine particolarmente adatta per questi luoghi. Proprio qui, davanti alla punta occidentale della Sicilia, si pratica fin dall’antichità una particolare pesca dei tonni, la mattanza. I pescatori con barche e reti formano delle vere e proprie camere della morte, dove fanno entrare i pesci che poi infilzano con arpioni a mano. Ed è singolare quanto il bacino di Mozia abbia le stesse dimensioni di queste camere.
A questo punto anche il nome citato da Omero per la terra dei Lestrigoni appare significativo. Dice il poeta: «Di là (ovvero dall’isola di Eolo) navigammo avanti… e giungemmo all’alta città di Lamo, a Telepilo Lestrigonia». Telepilo in greco è traducibile con l’espressione porta lontana ed è un chiaro rimando alla città di Pilo sulla punta sudoccidentale della Grecia e patria del mitico re Nestore. Esiste un legame tra questi due luoghi? È sorprendente che entrambe le città abbiano una baia con un’isola piatta (Mozia nel caso di Telepilo), il tutto dominato da una rocca a controllo del territorio.
Per Pilo è la rocccaforte di Englianos; per Telepilo quella di Erice. Ancora più stupefacente, se si osserva una comune carta geografica,
è il fatto che la Pilo di Nestore e la Telepilo dei Lestrigoni si trovino sulla stessa latitudine. Il toponimo di porta lontana per un
marinaio greco non è affatto trascurabile: se si eccettua lo stretto di Messina, proprio questo punto della Sicilia – tra il canale omonimo
e quello di Tunisi – costituisce la sola porta che dà l’accesso dal Mediterraneo orientale a quello occidentale.
Per concludere una curiosità etimologica. La roccaforte di Erice in età arcaica ha rappresentato un luogo sacro per l’antica popolazione
degli Elimi, il cui nome sembra avere origine semitica. Al-lamu, infatti, in assiro significa «che sta di fronte» e la rocca di Erice è
posta proprio di fronte all’Africa, nel punto di passaggio dove la Sicilia cede il passo all’occidente mediterraneo. Colpisce a questo
proposito che Omero chiami la roccaforte Lamu con una non causale assonanza fonetica con il semitico al-lamu.
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