Il paesaggio intorno a me è lunare. Ciottoli disordinati depositati sul greto del fiume Amato a sbarrare ogni corso d’acqua e tutt’intorno chiazze di verde vellutato e una piana scura che assomiglia a un fendente lanciato a mezz’aria. Davanti ai miei occhi, invece, il bagliore lucente del Tirreno. In una giornata limpida come questa le Lipari, in perenne ribollio, fanno sentire tutto il loro inquietante respiro.
La sagoma matronale della Sicilia non è un miraggio da qui, ma una meta raggiungibile con il corpo prima ancora che con il pensiero. Questo tratto della costa calabra, nell’agro oggi desertificato intorno a Lamezia Terme, reca un nome suggestivo: Costa dei Feaci. Roba buona per turisti ma soprattutto un toponimo beffardo se si pensa a come sono andate le cose. Il territorio lametino infatti è ridotto a uno scheletro, con l’aeroporto a nord e le vene di un’autostrada tra le eterne incompiute di un paese senza futuro. Non c’è rigogliosità né ubertosità. Nessuna traccia, neanche lontana, del mitico popolo dei Feaci che pure qui avrebbe abitato secondo il racconto di Omero, notizia ripresa dalla massima parte degli autori classici e soprattutto da Cassiodoro originario di queste parti (Scolacium le cui rovine di età romana oggi si possono ammirare nei pressi di Catanzaro Lido). Tra autostrada e aeroporto una brutale lingua di cemento a baciare quella che le statistiche e il sentire comune hanno battezzato come zona (e per estensione regione in toto) più povera d’Italia.
Proprio qui, dove la modernità fa sentire tutto il suo peso ingombrante, sarebbero vissuti i Feaci. Ed è sempre qui che il nostro eroe Ulisse, naufragato in seguito alla partenza dalle Lipari e da Calipso, sarebbe approdato. La terra dei Feaci, e soprattutto i tentativi di localizzarla, hanno rappresentato una vera e propria spina nel fianco per gli studiosi. La questione principale che tutti gli «omerici» hanno dovuto affrontare è stata la presunta contraddizione nelle informazioni lasciateci da Omero.
Secondo l’aedo, infatti, la terra dei Feaci si trova — se vista dalla Grecia — una volta dietro lo Stretto di Messina e un’altra volta davanti ad esso. Un dato ancora più incomprensibile se legato alla convinzione, fino ad ora incrollabile, secondo cui il mare da cui Ulisse trovò scampo presso i Feaci sia stato lo stesso da cui l’eroe fu ricondotto a Itaca.
Quello che sembra contraddittorio in Omero apparirebbe in una luce diversa se consideriamo che esiste effettivamente (e non è un’invenzione) una terra che appare una volta dietro e una volta davanti allo Stretto. Ed è la Calabria la cui costa occidentale si trova sul Tirreno (proprio dove mi trovo in questo momento tra il fiume Amato e l’agro lametino) e quella orientale sullo Ionio. Se si segue una rotta verso est — partendo dalle Lipari ultimo approdo di Ulisse — si giunge proprio in Calabria e dalla Calabria si deve salpare per raggiungere Itaca con una rotta verso est. Ancora più stupefacente è il fatto che Omero lascia intendere, neanche troppo velatamente a dire il vero, che il regno dei Feaci è delimitato non da un solo mare ma addirittura da due.
Questa sorprendente identificazione sembra mettere fine anche all’opinione corrente per cui la terra dei Feaci sia un’isola. A differenza di altri approdi di Ulisse — dove il poeta adopera espressamente il termine «nesos» (isola) — la terra dei Feaci viene detta da Omero Scherìe, che in greco significa letteralmente continente, terraferma.
Cerchiamo, a questo punto, di ricostruire il percorso compiuto da Ulisse così come ci viene restituito dalle parole di Omero. Dopo il naufragio l’eroe approda presso la foce di un fiume nella terra dei Feaci. A piedi — ormai solo e nudo — si incammina prima, dice il poeta, su un pendio e poi dentro un bosco. Da qui, via via che il letto del fiume spariva alle sue spalle, attraversa prima una strada rialzata, percorsa anche da carri trainati da mule, poi campi e terre coltivate fino alla città dei Feaci che non si trova sul mare ma, dice Omero, nei pressi di due sorgenti ovvero presso uno spartiacque in altura. Da questa città, infine, scende fino alla nave ed al mare che lo riporterà in patria. Un viaggio dunque che dopo un tratto in piano fa registrare una risalita in quota per poi effettuare la ridiscesa verso il mare. Insomma sembrano esserci tutte le caratteristiche di un cammino fatto a piedi.
Ma quali parti della Calabria ha toccato il tragitto di Ulisse? Dice Omero che Ulisse, dopo il naufragio, «fu gettato su di una costa ripida con promontori sporgenti e scogli e punte» che egli evitò cercando «spiagge battute di fianco dai flutti e baie di mare riparate». Egli si salvò, come abbiamo visto in precedenza, «alle foci di un fiume, su una spiaggia dove crescevano giunchi».
Tutto questo rimanda alla piana di una foce a delta racchiusa tra due coste rocciose. Sulla costa occidentale della Calabria in effetti c’è una simile insenatura: a nord di Capo Vaticano e degli scogli di Tropea e Pizzo, si apre il grande Golfo di Sant’Eufemia.
Qui sfocia il fiume Lamato (oggi Amato) e sorge Lamezia con il suo aeroporto come abbiamo visto. Anche un altro dato contenuto in Omero, all’apparenza fantasioso, sembra essere reale: dice il poeta che alla foce del fiume presso cui approda Ulisse ogni corrente cessa. A guardare bene la portata del Lamato/Amato ci si accorge che nella piana del fiume i detriti trasportati erigono delle vere e proprie barriere, dietro le quali si formano delle anse all’interno delle quali le acque ristagnano. Il nome antico del fiume deriva proprio da questa particolarità (lama in latino vuol dire luogo dove l’acqua ristagna).
A questa pianura, in questo tratto della costa calabra, sembra ricondurre anche un altro passo dell’Odissea nel quale Omero dice che la terra dei Feaci «cominciò ad apparire sul mare azzurro, come uno scudo». Interessante il fatto che Omero per la parola scudo utilizzi il termine «pinon» che, alla luce di molte testimonianze della pittura vascolare di età greca arcaica, individua una tipologia di scudo con due vistose rientranze semicircolari. Ed è proprio questo scudo a far parte dell’equipaggiamento dell’oplita, ovvero il cittadino-soldato, che segna il passo con un modo del tutto rivoluzionario di intendere sia la guerra (si combatte fianco a fianco in un unico schieramento) ma anche e soprattutto i rapporti socio-politici egualitari all’interno di quelle comunità che si stanno lentamente preparando a divenire poleis e non più regni appannaggio di aristocratici e nobili.
Ora, anche questa parte di Calabria possiede due insenature che ricordano le rientranze del pinon. Ovvero quelle di Sant’Eufemia e di Squillace dove tra mare e mare (Tirreno e Ionio) ci sono soltanto 32 km in linea d’aria. È non solo il punto più stretto di Calabria — e d’Italia — ma se lo si osserva dall’alto esso ha proprio la forma del pinon, lo scudo oplitico (ancor prima che gli venisse attribuita l’immagine moderna dello stivale).
In cammino nel bosco Ulisse incontra Nausicaa, figlia di Alcinoo e re dei Feaci. Viene da lei pulito, vestito e ristorato. Quando a sera Ulisse giunge in città egli stesso scorge le due baie e, dice Omero, l’eroe era pieno di stupore. Questa informazione è particolarmente decisiva perché in effetti, seguendo il percorso dalla foce del Lamato per dentro ai boschi, esiste un luogo in Calabria con la vista mozzafiato e a cavallo tra due mari: Tiriolo. Una delle punte più alte del cosentino (siamo a più di 800 metri sul livello del mare) e soprattutto scandito da una natura rigogliosa e inaccessibile. Le vette del paradiso non sono mai state così vicine, due mari pronti ad abbracciarsi da ovest a est, mentre da nord il massiccio della Sila isola e preclude qualsiasi contatto con il mondo esterno. È qui che Omero deve aver immaginato la città dei Feaci, spartiacque tra il mar Tirreno e quello Ionio. Tutto questo sembra allontanare definitivamente la convinzione che Scherìe sia posta direttamente sul mare. Una convinzione alimentata dalla presenza del tempio di Poseidone e delle navi di cui parla Nausicaa. I versi in questione, però, sono introdotti ogni volta dall’avverbio «enta» che vuol dire in greco «qui».
Ecco le parole che Omero affida a Nausicaa:
«L’istmo è stretto e le navi vengono tirate sulla strada in alto … e qui c’è anche una piazza intorno a un bel recinto sacro di Poseidone. E qui si prendono cura degli attrezzi delle nere navi, cime, vele, nere».
Appare evidente che Nausicaa si riferisca a un luogo diverso dal quale si trova con il suo ospite straniero. Ragion per cui la città dei Feaci, posta in altura, era ubicata diversamente rispetto al porto e al tempio di Poseidone, ovvero sull’altro versante in direzione dello Ionio, vicino o presso la foce del fiume Corace. Proprio qui, negli ultimi decenni, è ritornata alla luce l’antica città di Scolacium continuazione della greca Skylletion che oggi dà il nome al golfo di Squillace.
Tiriolo, dunque, domina dall’alto la via che dalla foce del fiume Lamato porta verso Squillace.
«Qui crescono alberi alti, lussureggianti: peri e melograni e meli dagli splendidi pomi e fichi dolci e ulivi rigogliosi. Mai il loro frutto muore o viene a mancare né d’inverno né d’estate, per tutto l’anno: ma sempre il soffio di Zefiro spirando fa nascere gli uni e maturare gli altri…».
Queste parole, stupende, di Omero introducono al mitico giardino di Alcinoo. Un elemento che da sempre è stato considerato come prova della fantasiosità del racconto e dell’intero episodio dei Feaci. Tuttavia l’elenco fornito dal poeta coincide perfettamente con frutti che ancora oggi crescono e maturano in Calabria. E di alcuni frutti, grazie soprattutto al clima mite e dolce, si effettuano più raccolti all’anno. Il quadro è completo se a tutto questo aggiungiamo anche il fatto che proprio a Tiriolo (capitale dei Feaci), a seguito di certosine osservazioni metereologiche, si è scoperto che soffia quasi esclusivamente vento di Ponente, ovvero lo Zefiro dei Greci. A rendere ancora più aderente e coerente l’identificazione tra Calabria e terra dei Feaci è la presenza proprio in questa regione dei bagni caldi amati dai Feaci. Anch’essi infatti si trovano nell’istmo di Calabria. Si tratta delle Terme Caronte presso Torrente Bagni che fuoriescono dalla terra ad una temperatura di 39 gradi. E non è un caso che Lamezia Terme nel toponimo abbia sintetizzato i due elementi più importanti del suo territorio: il fiume Amato/Lamato e le sorgenti termali.
Secondo Omero, in conclusione, Scherie si trova
«lontano dagli uomini industriosi… nessuno vive vicino alla loro terra e nessun altro dei mortali viene a contatto con noi».
L’isolamento della terra dei Feaci è presto spiegato. Non solo per la presenza di Tiriolo, nel cuore più interno e selvaggio di Calabria, che si sviluppa su sentieri e strade inaccessibili ma anche e soprattutto per il guardiano della Sila che minaccia e spaventa chiunque osi addentrarsi in queste terre. Senza dimenticare la catena del Monte Pollino, più a nord, che con le sue vette alte più di 2000 metri, separa la Calabria dal tutto il resto d’Italia.
Alcinoo, sua moglie Arete, Nausicaa, Odisseo. Fiumi, mari, vette inespugnabili, navi e un’agognata via del ritorno. Oggi questi nomi risuonano come echi di un passato mitico e lontano. Tuttavia la loro voce è ancora lì — persa tra i boschi della Sila e tra le onde di due mari — a ricordare agli uomini e alla modernità che è esistito un tempo, fatto di armi uomini e poeti, in cui ogni cosa in questo angolo di Calabria era perfetto, in armonia con il creato. E forse questa voce, che si fa sempre più flebile, insiste nel ricordare, e ricordarci, che un futuro e un riscatto sono ancora possibili.
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