Cleopatra
e il serpente
Grandi donne
mal raccontate
dal patriarcato
Una recensione di
SILVIA GARAMBOIS
“Cleopatra e il serpente” è la storia di 23 donne, da Elena di Troia e Medea a Ofelia e Sarah Bernhardt, che nei secoli sono state trafitte dalla tragedia. Cleopatra, pur con tutto il suo appeal, è solo una delle tante, il titolo poteva premiare allo stesso modo “Circe e il maiale”, o più modernamente “Marylin e Barbie”, perché in ogni caso l’arcano viene rivelato dal sottotitolo: “La bellezza come arma del patriarcato”.
Eccolo il senso di questa raccolta di storie di donne che hanno fatto la storia – che poi sono anche più di 23, molte si celano all’interno di altre monografie, da Penelope a Maria Stuarda, a Beatrice di Dante o Laura del Petrarca: ma a legarle non è la vita tragica, la fine tragica, quanto invece il fatto che ce le hanno sempre raccontate male, fossero Omero o Shakespeare o i rotocalchi, donne belle, bellissime, magari anche un po’ sceme, strumento sessuale o di orgoglio sociale – o di accordi politici - nelle mani di padri, mariti, amanti, fratelli. E se non fosse andata davvero così?
Cleopatra e il serpente
- La bellezza come arma
del patriarcato
di Nicola Fano
Elliot editore
19 euro
Nicola Fano, storico del teatro da molto tempo, ma per altrettanto giornalista – e questo si vede nella scrittura facile e leggera – in modo molto dotto rilegge le loro vite, confronta testi e autori, riprende in mano quadri e ritratti, e ci racconta come il tempo abbia ridotto queste donne (che erano studiose, poete, capaci nell’arte della guerra) ad annebbiate figure di contorno. Persino la povera Marylin Monroe, per sempre inchiodata a quella torta da cui esce per cantare con un fil di voce (sensuale) “Happy Birthday” a John Kennedy, mentre con fin troppa determinazione continuava a frequentare scuole di recitazione per uscire dalla sua gabbia di “oggetto di consumo”.
“Cleopatra e il serpente” (Elliot editore, euro 19,00) segue il flusso della storia, e tra le prime donne ci propone Elena di Troia, Elettra, Medea, Circe, ricordandoci come nell’antica Grecia l’eroe fosse “kalos kai agathos”, bello e buono, mentre queste donne belle lo erano e tanto, ma buone no. In realtà - però questo lo aggiungiamo noi - quegli attributi eroici erano davvero esclusività maschile in un tempo in cui si celebrava la repubblica ateniese dove il voto era di tutti, inteso come tutti gli uomini, visto che le donne non ne avevano diritto…
Non faremo spoiler (un tempo si diceva anticipazione), privando chi segue questa nota del gusto della lettura del libro, che per l’appunto è gustosa e rivelatrice, ma di un paio di queste donne ci piace raccontare. Anzi, tre, partendo proprio da quella a cui Nicola Fano non regala un titolo, Penelope (ne parla nel capitolo dedicato a una gigantessa come Circe), quella che sta naturalmente antipatica a chi ha dovuto studiare l’Odissea, tutta presa a fare e disfare una tela – attività noiosissima – in attesa dell’amato. Circe la inchioda, avvertendo Ulisse che nel frattempo sua moglie è senz’altro invecchiata, ma Nicola Fano recupera un testo scritto cent’anni dopo (VI secolo A.C.), “Telegonia”, dove Ulisse muore – scherzi del destino - per mano di Telegono, figlio dello stesso Ulisse e di Circe, ma va a finire che il giovane sposa Penelope! Insomma, un toy boy per consolare l’anziana tessitrice…
Quelle che invece ci piace ricordare sono, tra le tante, Porzia e Trotula. Che personagge potenti!
Porzia è una donna, diremmo oggi, politicamente impegnata. E il suo impegno era nel contrastare Giulio Cesare che tradiva la secolare identità repubblicana di Roma per trasformarla in Impero: già suo padre si era suicidato per non giurare fedeltà al vincitore della guerra civile, mentre suo marito era uno dei congiurati che poi Cesare lo accoltellò davvero (ed è probabile che lei stessa, “stoica” e tutta d’un pezzo, ne influenzasse il gesto). Ma il “progresso” era alle porte, il nuovo vincitore era Ottaviano che si proclamò Augusto: “Porzia si uccise – scrive Fano - pur di non cadere nella rete dell’odiato nemico. Secondo la leggenda si uccise ingoiando dei carboni ardenti ('mangiando fuoco', dice poeticamente Shakespeare)”. Lei, baluardo del passato, che sceglie il suicidio politico contro una modernità che considera nefasta.
Trotula invece era una medica, della scuola salernitana (tra la fine dell’anno Mille e il Mille e cento). Celebratissima. Autrice di testi di “medicina di genere”, che non solo definivano le differenze tra uomo e donna, ma ne studiavano i diversi rimedi. Considerando che oggi – oggi – ancora non ci sono sufficienti studi nella messa a punto delle nuove medicine (emblematico il caso del Covid) e si usano parametri maschili per curare le donne, si capisce quanto fosse innovatrice.
Si occupò anche di cosmesi, non tanto perché le donne potessero mostrarsi belle nelle alcove, quanto perché “ella punta a fare in modo che la donna possa avere un rapporto armonico con il proprio corpo”. Pure femminista… “Come avrà fatto Trotula, con la sua dottrina anticonvenzionale se non rivoluzionaria – scrive Fano – a evitare il rischio di essere bruciata sul rogo come una strega?”. O è stato il suo successo internazionale a salvarla? Certo è che la sua morte, nel 1097, portò in strada una folla mai vista.
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