Italiani
d'America
Migranti d'antan, bisacce, voci e speranze
Una recensione di
MARCELLA CIARNELLI
“Dammi le tue masse stanche, povere ammucchiate, desiderose di respirare liberamente, i miseri scarti dei tuoi litorali affollati. Manda a me questi senza tetto, sballottati dalla tempesta: io innalzo la mia lampada accanto alla porta d’oro”. Sono queste le parole, un inno alla libertà e all’accoglienza, un invito alla solidarietà, della poetessa Emma Lazarus incise sul piedistallo della Statua della Libertà che dal 1886 è il primo assaggio d’ America per chi arriva dal mare, scolpito lì ad accogliere le speranze di milioni di emigranti. Quei versi, in una lingua sconosciuta e ostile per le donne e gli uomini che arrivavano alla Merica in cerca di fortuna, di una vita migliore, per dare un futuro ai propri figli, non erano in grado di capirli ma testimoniavano una volontà di accoglienza che certamente consentì, pur tra innegabili difficoltà e contrasti, in pochi decenni la trasformazione dei migranti in italiani all’estero.
Italiani d'America - La grande emigrazione negli Stati Uniti
di Mario Avagliano e Marco Palmieri
Il Mulino editore
32 euro
Ad affrontare l’argomento dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, una situazione rovesciata rispetto all’oggi in cui a ospitare siamo chiamati noi ma lo facciamo da inospitali, a raccontare il sogno americano che poteva migliorare il futuro partendo da un complesso passato, si sono impegnati con riconosciuta competenza Mario Avagliano e Marco Palmieri, non nuovi ad avventurosi viaggi nel brutto e il bello che crescono nelle speranze, nei sacrifici che l’umanità si trova a vivere se decide di affrontare un cambiamento. In meglio, se possibile. Si tratti della storia di un uomo solo o della collettività.
Nel saggio “Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti (1870-1940)”, 552 pagine, edito da il Mulino, gli autori si addentrano e analizzano appunto il fenomeno dell’emigrazione italiana in America, avvenuta in gran ritardo rispetto ai Paesi del Nord Europa da cui l’avventura oltreoceano alla ricerca della felicità, o, senza esagerare, di una vita con meno sacrifici e qualche soddisfazione, era già cominciata con grande anticipo.
Dal 1876 fino al 1988 sono stati circa 27 milioni gli emigranti italiani negli Stati Uniti, anche se circa la metà è poi tornata indietro non solo per nostalgia ma soprattutto per l’insuccesso della attività intrapresa o ancora perché semplicemente non ammessi nel Paese. La maggioranza era di uomini, perché alle donne toccava (almeno nei primi anni) il destino di restare a casa ad aspettare e portare avanti la famiglia, ristorate dalle rimesse che arrivavano dagli uomini lontani, mariti, fratelli, figli spesso molto giovani. Oltre il 16 per cento aveva meno di quattordici anni.
Fonti di notizie sull’esodo verso il nuovo mondo sono state le lettere alla famiglia, le pubblicazioni, i giornali ma anche canzoni, perchè quando “partono ‘e bastimente pe’ terre assaje luntane” a bordo si canta e “so’ Napulitane” e viaggiano in terza classe perché “la prima classe costa mille lire… la seconda cento e la terza dolore e spavento” come ci ricorda nel suo Titanic Francesco De Gregori, ai migranti non resta che cantare. E poi ci sono tutti i film. Avagliano e Palmieri non si sono sottratti ancora una volta all’impegno, che è quasi un obbligo affrontando determinati argomenti, di consultare gli archivi sia italiani che americani che sono stati pane quotidiano anche per i loro precedenti lavori. Hanno quindi ripercorso per raccontare la storia degli italiani d’America la tradizione orale di cui c’è testimonianza anche alla Ellis Island Foundation, la porta d’ingresso di New York via mare, e gli archivi di scritture popolari di Pieve Santo Stefano e Genova.
L’itinerario alla scoperta di queste vite di viaggiatori per necessità mossi dalla speranza di una vita migliore, spesso sollecitati a farlo dai parenti che già li avevano preceduti e che si ritrovavano uniti dalla provenienza nelle Little Italy per sentirsi un po’ a casa, meno soli, era lungo e faticoso, anche se chi partiva era pronto a confrontarsi con le mille difficoltà del quotidiano: dalla lingua al cibo, dalla fatica alle durissime condizioni di lavoro segnate da incidenti anche senza scampo. Dall’impegno a dover smentire i luoghi comuni sugli italiani sfaticati e chiacchieroni. E c'era poi il peso della fama di una criminalità organizzata che, oggettivamente, anch’essa aveva attraversato l’oceano. Fatica e rischi per arrivare ai successi che miglioravano anche la vita di chi era restato a casa grazie alle rimesse che finirono per influire sul bilancio nazionale ma che spesso non bastavano per una totale integrazione, per far cadere i pregiudizi nei confronti di chi arrivava.
Il libro comincia con la grande emigrazione. Le avventurose partenze, l’arrivo e il lavoro offerto perché c’era bisogno di manodopera ma a condizioni da fame, le reti sociali e familiari che aiutavano i più deboli a farcela e anche a riuscire ad integrarsi superando la dura realtà del razzismo. Riuscendo, quando andava bene, a guadagnarsi un meritato rispetto. Questo vale specialmente per le seconde, terze generazioni, la cui integrazione costò nelle famiglie scontri e incomprensioni. Anche fratture insanabili. Che però furono pure stimolo a migliorare, conducendo a imprevedibili e storici successi che nessuno avrebbe immaginato sbarcando in terra d’America.
Ecco Fiorello La Guardia, sindaco di New York, Antonio Meucci, l’inventore del telefono, Joe Di Maggio, star del baseball; e gli uomini di cinema Martin Scorsese, Dean Martin, Robert De Niro, Al Pacino e via ricordando. Nella seconda parte del volume viene analizzato il periodo che va dalla grande guerra alla seconda guerra mondiale. E, quindi, necessariamente del rapporto con il fascismo degli italoamericani, che fu benevolo perché quegli uomini costretti ad emigrare per miseria, forse condizionati dalla lontananza, si erano convinti che “grazie a Mussolini l’Italia contava qualcosa” come don Luigi Sturzo, esule per vent’anni, racconta ne “La mia battaglia da New York”.
Una sintesi, quasi evocativa di affermazioni anche recenti, di come i migranti vivessero il fascismo stando dall’altra parte dell’Atlantico, viene da Gaetano Salvemini, anche lui esule, docente all’Università di Harvard, che nel 1929 scriveva: “Arrivati in America analfabeti, scalzi e con la bisaccia sulle spalle, avevano attraversato difficoltà e patimenti inauditi, disprezzati da tutti perché italiani. Ed ora si sentivano ripetere, anche da americani, che Mussolini aveva fatto dell’Italia un gran Paese, e non c’erano disoccupati, e tutti avevano il bagno in casa, e i treni arrivavano in orario, e l’Italia era rispettata nel mondo”. Il filtro della lontananza consentiva di credere alla narrazione di una nazione risollevata e forte. Non era così e il dopo è storia nota. Di allora e anche di oggi.
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