Medioevo
quello storico cliché
Così i media costruiscono
lo stereotipo dei 'secoli bui'
Una recensione di
GIGI SPINA
Una volta in medio stabat virtus, e forse anche adesso. Anche perché è più facile dirlo in latino che col greco di Aristotele. E però nei media (in mediis?) sicuramente non ce n’è più, di virtus, e forse non ce n’è mai stata.
La cosa si complica, o si intreccia, quando si parla di Medioevo nei media. Ed è quello che ci spiega con grande apparato di testimonianze Marco Brando in "Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani", Salerno ed., 2024. Ora, noi sappiamo che “chi controlla il passato controlla il futuro”, ma poi (o prima) “chi controlla il presente controlla il passato”; e non solo nel 1984 (o “in” 1984). Anche 40 anni dopo.
Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani
di Marco Brando
Salerno editrice
17 euro
Il Medioevo, dunque, sarebbe il futuro anteriore del nostro ritorno al passato, quello che ci aspetterebbe appena prima di aver riportato la nostra modernità al buio dei secoli di mezzo. Starei per dire: la condicio sine qua non dell’impossibilità di progredire, di guardare in avanti, di risolvere alcuni problemi cruciali dell’oggi. E poi, detta in latino, la condizione necessaria sembra assumere tratti di nobiltà, quasi di predestinazione divina.
Sì, perché di ritorni al passato c’è quasi sempre stata fame e voglia: per nostalgia dei propri vent’anni; per nostalgia della gloria della propria nazione, ancorché tiranna e colonialista; perché il passato, meglio se greco e meglio ancora se ateniese, sembra perfetto, pieno di filosofia e di libertà; se poi romano, pieno di saggezza imperiale. Solo che questi ritorni non si presentano orientati a un mondo distopico, anzi offrono modelli esportabili nel futuro – tranne qualche piccolo dettaglio, come il tempo che cambia tutto – a tutto vantaggio di una umanità felice.
Ecco quindi che il Medioevo, proprio come futuro anteriore, può essere additato, nella vulgata circolante, come il passo falso che potrebbe impedire il futuro roseo, il filtro a cui sottoporre il nostro oggi (ricordate: chi controlla il presente controlla il passato, e quindi il futuro o, come ricorda un medievista canadese, Norman F. Cantor, citato da Brando a p. 121, “impregna il passato col presente”), proprio per evitare che il nostro futuro sia distopico.
Insomma, il male, oscuro e buio, fine di mondo. Ma additato da chi? Non dagli storici, certo, né da chi, anche se non storico di professione, cerca di capire come sia andato il mondo ricorrendo a fonti affidabili, e magari riesce a capire meglio come va quello in cui vive. No, gli additatori sono quei comunicatori per professione (o anche, per diletto) che utilizzano con troppa disinvoltura stereotipi consunti. E fra questi stereotipi Brando sceglie il “ritorno al Medioevo” come formula che viene usata per qualificare come medievale tutto ciò che oggi, nella nostra contemporaneità, suoni reazionario, retrogrado, integralista, tradizionalista, oscurantista. Io avevo provato a fare lo stesso tipo di indagine sulla velenosa e autoassolutoria formula: “lo dico senza retorica”, che cerca di negare l’arte dell’argomentazione persuasiva proprio mentre la si sta usando. E anche a interrogare ChatGPT sul problema, cosa che mi rende il libro di Brando particolarmente consonante.
I titoli di libri, frutto di ricerche storiche e ora anche antropologiche, che iniziano con “La vita quotidiana a/in” dovrebbero essere delle guide obbligatorie per giornalisti e comunicatori, prima che intraprendano azzardati paralleli fra passato e presente. L’analogia gioca quasi sempre brutti scherzi, perché schiaccia sul presente, su quello che conosciamo e percepiamo meglio, proprio ciò che, in quanto distante e ‘altro’, sembra, sì, uguale, ma è soprattutto diverso. Brando riesce a dare perfetta testimonianza, attraverso documenti inoppugnabili, di come si intreccino, in questo ritorno (sciagurato) al futuro anteriore, tradizionali mezzi di comunicazione e nuovi media, di come il “medievalismo digitale” faccia ormai a gara con quello della carta stampata. E di come, però, negli stessi social si possano intravedere segnali di correzione, post informati, recupero dei dati storici che hanno minore forza divulgativa.
Tutto questo perché è nel sistema di comunicazione che si nascondono, potrei dire riprendendo Brando nelle conclusioni, vittime e “vettori del contagio”, ma anche veleni e antidoti. In ogni caso, è questo il terreno sul quale bisogna operare, soprattutto da parte degli storici. La mia riflessione non dà sicuramente conto della ricchezza anche operativa del libro di Brando, che, soprattutto negli ultimi capitoli, dopo quelli che documentano lo stato dei fatti, affronta il problema della formazione dei giornalisti (e non solo), con precise indicazioni di esperimenti formativi già fatti. Ma anche la didattica scolastica e universitaria necessita di una vigorosa messa a punto, proprio perché è in quel settore della formazione che vecchie e nuove fonti di conoscenza si intrecciano e vanno quindi messe sotto l’osservazione critica di chi sappia padroneggiarle. Anche per questo punto c’è, come in tutto il libro, ricchezza di indicazioni bibliografiche e sitografiche. Il che consente, alla fine della lettura, di avere più chiari non solo il problema, ma anche alcuni dei possibili modi per affrontarlo.
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