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Jazz session
la musica
è musica

Incontri e amicizie
con grandi artisti

Una recensione di
MARCO PICCARDI

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Giacomo Pellicciotti, classe 1940, è romano di nascita ma gran parte della sua attività professionale si è sviluppata nella città di Milano, dove ha vissuto per moltissimi anni, a partire dalla fine dei Sessanta. Già allora aveva maturato una forte passione per la musica, anche per il rock ma in particolare per il jazz, e cominciò a scriverne dapprima per riviste specializzate come Musica Jazz, Muzak e Gong, poi per periodici come L’Europeo, Panorama e Vogue. E infine per il quotidiano La Repubblica, sul quale per circa quarant’anni ha scritto presentazioni e recensioni di concerti, queste ultime sempre scrupolose e sincere, anche severe quando necessario. Davvero una delle firme più autorevoli della critica musicale italiana.


Jazz session
Incontri con musicisti straordinari
di Giacomo Pellicciotti

La Nave di Teseo editore
19 euro

Non solo. Per alcuni anni Pellicciotti ha anche prodotto importanti dischi di jazz per l’etichetta discografica Black Saint, da lui fondata a Milano. Tra il 1975 e il 1979 hanno visto la luce una trentina di titoli, prevalentemente di artisti afroamericani, tra cui Archie Shepp, Don Cherry, Muhal Richard Abrams, Don Pullen, Julius Hemphill, Lester Bowie, Max Roach, Anthony Braxton. Non mancano però album di musicisti italiani come Enrico Rava e Marcello Melis.



(Giacomo Pellicciotti e Keith Jarrett)


Gli incontri avuti da Giacomo Pellicciotti con tanti musicisti, vuoi per interviste vuoi per le produzioni discografiche, sono il fulcro del suo libro 'Jazz Session', pubblicato quest’autunno da 'La nave di Teseo', in cui, oltre a stralci dai colloqui avuti con loro, vengono tratteggiate sia le figure artistiche sia quelle personali, con numerosi aneddoti. Pellicciotti fornisce sempre informazioni sufficienti a rendere la lettura abbordabile anche dai non esperti di jazz: certo non devono mancare la curiosità e l’interesse, ma si può trovare qui un ottimo stimolo ad approfondire e meglio conoscere questi artisti e la storia della musica afroamericana. Il libro poi non offre solo un utile approccio conoscitivo a grandissimi artisti, ma costituisce – a partire dell’introduzione – anche un ritratto autobiografico dell’autore stesso, a sua volta significativa figura attiva nel mondo del jazz.



(Pellicciotti a Harlem)


Gli incontri raccontati nei 25 capitoli del libro si collocano tra gli anni Settanta e i Novanta. Si va da grandi nomi “storici” come Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Cab Calloway, Dave Brubeck, Stephan Grappelli a protagonisti del jazz moderno come Gato Barbieri, Lee Konitz, Gerry Mulligan, Ornette Coleman, Elvin Jones, Sonny Rollins, Wayne Shorter. Ci sono anche interessanti figure “parallele”, non prettamente jazzistiche, come Astor Piazzolla, Chuck Berry e Caetano Veloso.

Ma se proprio dovessimo scegliere dal ricco mazzo i quattro capitoli vissuti dall’autore più a distanza ravvicinata con l’artista, citeremmo quelli dedicati a Keith Jarrett (cui è anche dedicata la copertina del libro), Miles Davis (con due gustosissime interviste), Don Cherry e Chet Baker. In queste pagine in particolare si avverte, oltre alla grande ammirazione nei confronti dei musicisti, anche l’aver percepito e condiviso la loro parabola umana.



(Con Gato Barbieri)


C’è poi un capitolo con più ritratti, dedicato agli incontri avuti da Pellicciotti a New York negli anni Settanta con esponenti della scena Free Jazz che hanno registrato lì alcuni dei titoli del catalogo Black Saint, incontri da cui spesso sono scaturiti veri rapporti di amicizia. Voglio ricordare qui che questa esperienza negli States portò anche alla realizzazione a Milano, nel 1981, di due ricche serate di musica dal titolo New York: new music, coordinate dallo stesso Pellicciotti.

Jazz Session offre uno spaccato dell’epoca d’oro di quella musica, da Armstrong fino al Free Jazz, periodo dopo il quale, scrive Pellicciotti, “il jazz è diventato tecnicamente vicino alla perfezione (…) ma anche rivolto a mischiare e confondere tutti gli stili del secolo precedente. Un’antologica confusione di stili e cliché come sta succedendo a più o meno tutta la musica che si consuma oggi”. Si direbbe che l’autore veda in pericolo le peculiarità di questa musica che lui stesso ben descrive: “Il jazz aveva di speciale il suono spericolato e travolgente degli strumenti, la voce riconoscibile di una persona attraverso la sua tromba o il suo sassofono. (…) Ma il fatto che rendeva più romantici quegli ‘strani’ musicisti afroamericani era il mistero, l’essere sempre in bilico tra inferno e paradiso, genio e follia (…)”.



(Con Miles Davis)


Ma forse il Jazz una strada a disposizione per evolversi e sopravvivere ce l’ha: nel libro Pellicciotti riporta una dichiarazione rilasciatagli da Don Cherry a proposito dei suoi rapporti con alcuni musicisti di altro genere musicale: “Io imparo da loro, dalle novità del loro progetto, e loro imparano da me, dal bagaglio culturale che ho acquisito, dalla musica etnica al jazz. Anche se siamo incasellati dai media in diversi generi musicali, sono convinto che la musica è una sola”. Un concetto questo che Pellicciotti condivide: “Il jazz è stato un amore speciale, ma per me la musica è sempre stata una sola (…)”. Quindi chissà che, anche attraverso contaminazioni e trasformazioni, il futuro del Jazz non ci riservi tante altre belle sorprese.




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