AVVERTENZA. Il finale del film è pensato come parte integrante di una struttura narrativa che devo raccontare e delineare. Naturalmente questo comporta uno svelamento del finale, per cui avviserò il lettore che non desidera leggerlo dove fermarsi.
Si dice che un Artista (con la “A” maiuscola) agli esordi crei le sue opere esclusivamente per far piacere a se stesso. Poi, nella fase della maturità, le crei per far piacere agli altri. Infine, in vecchiaia, crei le proprie opere per far piacere a Dio.
Con questo film siamo al Martin Scorsese della vecchiaia. Una scrittura cinematografica che rasenta la perfezione, una struttura narrativa stratificata da far invidia ad un romanzo - con un continuo cambio di piani - un montaggio volutamente “indiano”, con incedere lento ma inesorabile, che richiama l’iconografia dei Nativi Americani.
Ce ne sarebbe d’avanzo per l’Enciclopedia Mondiale del Cinema. Ma poi c’è la chicca finale, che ribalta tutto.
Procediamo con ordine e separiamo i piani, che nel film sono intrecciati e sovrapposti, alcuni perfino in collisione.
La storia è vera. Ed è il primo dei piani della struttura: non la narrazione, ma la realtà.
Quella storica. Che ci racconta di una delle tribù dei Nativi Americani che vennero rinchiusi in una riserva nell’Oklahoma. Amministrazione indiana, ordine e giustizia amministrate invece dai visi pallidi. Quel terreno si scopre in seguito che è petrolifero, e la piccola tribù degli Osage diventa il gruppo di persone più ricco (e saggio) degli Stati Uniti d’America. Ricchi, ricchissimi. Sfondati.
Poi i membri delle 25 famiglie originarie (purosangue, un’ossessione americana) iniziano a morire per cause incerte, le eredità rotolano a valle dell’albero genealogico, e sposarsi una purosangue diventa un affare per i visi pallidi attirati come mosche. Gli indiani continuano a morire, qualcuno anche sparato.
Occorre mettere fine alla decimazione, e una soluzione, nella realtà, verrà trovata.
Fine del primo piano narrativo.
Secondo piano. La narrazione cinematografica per immagini. Occorre un tema che conduca la storia, e che ci guidi lungo il filo degli eventi.
E poi, subito, c’è anche il terzo piano, quello della fiaba. La favola che ci racconta Martin Scorsese. Ed inizia già con la prima scena, assolutamente simmetrica all’ultima (per dire subito l’importanza della struttura).
Dunque, il film apre sulla favola, che sconfina nei canoni della tragedia greca, con l’annuncio del tema: il grande capo officia il rito del sotterramento del calumet, la pipa sacra, quella che mette in comunicazione diretta con il loro dio. Un dio che non è affatto assente, che li protegge e li adora.
Il calumet, come ogni fumo sacro, è un elemento vitale nei riti iniziatici, perché mostra plasticamente il filo diretto ascensionale fra il popolo e il suo dio. Lo ritrovate nei sacrifici dei re e degli eroi greci, lo trovate anche nel rito cattolico, dove l’incenso sale dall’altare verso la lanterna della cupola, la buca e va direttamente a sussurrare all’orecchio di Dio.
La tragedia vive nella parola del Capo Tribù Osage, laddove annuncia che con il calumet vanno sotterrate anche tutte le tradizioni del popolo del Cielo (così si definiscono gli Osage), perché bisogna fondersi e convivere coi visi pallidi e con il loro modo di vita, che altro non è che il Capitalismo.
Sul piano della favola, il calumet sotterrato secondo l’antico rito fa spruzzare fuori dalla terra lo sperma nero del petrolio, che rende feconda una terra brulla e porta fecondità a tutta la tribù. Il consiglio delle 25 famiglie suddivide equamente terre e ricavi fra tutto il popolo, così che tutti siano ugualmente ricchi e tutti ugualmente felici.
A casa mia una cosa del genere si chiama “comunismo”.
Ma comunismo e capitalismo insieme costituiscono un’empietà!
E chi è il Capitalismo, se non lo “Zio Sam”?
Ed infatti eccolo lì, William Hale, impersonato in modo impeccabilmente ambiguo da Robert De Niro, lo “Zio” di tutti, visi pallidi e indiani. L’amico di tutti, il benefattore pubblico, ma in segreto l’ingordo, l’avido, il criminale stragista.
Nella fiaba si tratta con simboli. Con invarianti. Con figure emblematiche.
Il Popolo degli Osage è la rappresentazione della Madre Terra, della fertilità, della ricchezza, della fortuna, dell’abbondanza ma soprattutto della “Misura” (ancora torniamo ai temi che per noi sono tutti contenuti della letteratura dell’antica Grecia).
L’avversario, il “villain” ― come si definisce tecnicamente ― è lo Zio Sam, il capitalismo d’assalto, che si presenta con il volto dell’amicone di tutti, che apparentemente rende felici tutti, che si “prende cura” di tutti, che si lustra le medaglie del benefattore, ma che in realtà è il messaggero di morte.
In mezzo c’è il nostro eroe, il tontolone Leonardo Di Caprio, Ernest Burkhart nel film, che non sa bene che pesci prendere. Il perfetto fancazzista: gli piacciono, e parecchio, i soldi. Non vuole fare nulla di giorno, e vuole divertirsi tutta la notte con gli amici a giocare. Ed in lui si rispecchia tutta l’umanità che sta in mezzo fra l’1% degli straricchi e la Madre Terra, il Pianeta coi suoi ritmi e i suoi cicli. L’oggetto della predazione. Un’umanità frastornata, che non sa che pesci prendere, e che segue la guida di chi comanda, si arrangia con piccoli crimini locali, piccole furbizie, che sbaglia tutto e non riesce mai a combinare nulla, perché è il ventre molle della storia, e della favola. È Paperino di Walt Disney. Sfigato con lo zio ricco e malvagio.
Il resto non conta. Comparse. Uccisioni. Avvelenamenti combinatori. Il tutto per far giungere le eredità degli assassinati nelle tasche dei parenti più prossimi della nativa americana sposata da Ernest (Mollie) come punto di accumulazione di ricchezze, terreni petroliferi, soldi.
Soldi, soldi e poi ancora soldi.
E morti, morti e ancora morti.
Tutti Nativi. Per “deperimento organico”, per diabete (gli Osage sono minati da questa tara ereditaria), per apparenti suicidi, che suicidi non sono mai. Per omicidi.
Bisogna dire basta alla strage. Il Consiglio della Tribù si riunisce e decide di chiedere al Grande Capo Bianco di Washington di intervenire, visto che la polizia locale e gli investigatori assoldati non combinano nulla. Ma anche l’emissario che deve portare l’ambasciata nella Capitale, guarda caso, fa una brutta fine, e gli indiani continuano a morire con un crescendo che arriva fino all’esplosione dinamitarda e omicida delle case dei Nativi.
E dietro a tutto, c’è ovviamente lo Zio Sam, De Niro, e dietro di lui tutti i bianchi con la bava alla bocca, perché loro in realtà sono i servitori dei ricchi Nativi, quando il piano dovrebbe essere rivoltato: loro i padroni, e gli indiani i servitori ubriaconi e sfigati.
E proprio nel mezzo del racconto, Scorsese distilla una goccia del suo pensiero, che riporta alla realtà odierna, non a quella degli anni ’20 del secolo scorso, tempo narrativo che guida la storia.
Ernest commette un madornale errore, in uno degli omicidi che dovevano sembrare suicidi si affida ad un disgraziato killer, che invece di sparare in fronte alla sfortunata parente indiana, le spara alla nuca. L’omicidio non può passare in nessun modo per suicidio, e quindi Di Caprio-Ernest va punito.
Dove?
Scorsese vuole far capire bene al suo pubblico dove avviene questo rito di punizione. Siamo all’interno di una loggia massonica, con tanto di porta degli uomini e porta degli dei. Con tanto di colonne che rappresentano i simboli cardine degli iniziati, a destra e a sinistra. Con tanto di librone dei Misteri sul podio tra le colonne, podio a cui Ernest si appoggia per la sculacciata.
Non lo avete capito bene? E allora Scorsese, per non lasciare nulla al caso, ve lo dice in chiaro: lo Zio Sam-De Niro sculaccia il nipote di Caprio dall’alto del suo 32° grado della Massoneria.
Ecco. E così la simbologia è spiattellata, quasi tirata addosso al pubblico dallo schermo.
E il disegno criminale, il “complotto massonico”, è esibito in tutta la sua lineare e micidiale purezza: gli indiani devono morire, prima o poi scompariranno. Meglio prima che poi, meglio con le loro ricchezze nella nostra saccoccia che nella saccoccia altrui. È l’inevitabile destino. Il Capitalismo vince, la Natura perde.
Il disegno di una massoneria criminale. Infantile e feroce come lo sanno essere solo i bambini, che non conoscono ancora i valori, la vera base dell’Umanità (con la “U” maiuscola) e che scambiano il valore relativo per eccellenza, il denaro, per il Valore Assoluto, il Bene.
Fine del film? Fine del racconto e della fiaba?
Tutt’altro.
E qui i lettori che non gradiscono essere spoilerati si devono fermare nella lettura, e ritornare semmai dopo aver visto il film.
DA QUI IN POI C’E' LO SPOILER DEL FINALE
Persi un po’ di lettori, puntiamo alle sorprese finali, che sono continui ribaltamenti e arricchimenti dei piani narrativi.
Il Grande Capo Bianco manda in effetti gli agenti dell’FBI a risolvere il caso, dopo che il Gran Consiglio della Tribù si reca in massa alla Casa Bianca per chiedere il suo intervento.
E la neonata FBI di Hoover il caso lo risolve. Il capitalismo ingordo ma collegato massonicamente ai vertici dello Stato Federale ingaggia allora una lotta per l’impunità, perché in fondo l’essenza di tutti gli Stati Uniti d’America è quella lì, non altra. Che senso ha punire lo Zio Sam locale quando lo Zio Sam globale che guida da Washington alla fin fine è fatto della stessa pasta?
Però occorre mantenere le apparenze, per cui un po’ di galera il Villain grossolano di De Niro se la dovrà pur fare.
Chi viene invece incastrato è la popolazione umana, simbolizzata da Ernest coglione e coglionato.
Il cattivo è il cattivo, il villain è il villain. Fa quello che deve fare.
È invece il nostro eroe, che alla fin fine è davvero innamorato di Mollie, la moglie indiana, e dei figli che lei gli ha dato, che non sa dire come mai ha seguito lo Zio criminale nell’ordire trame omicide contro le cognate, i suoi stessi amici e parenti, senza poi guadagnarci neppure nulla, se non la posizione dello squaw-bianco coi soldi della moglie, sempre sperperati.
Perché l’umanità è costituita al 99% da Ernest coglioni? Cioè da “piccolo borghesi”, come si diceva una volta, frastornati e manipolati? (Oggi per loro si usa l’espressione più neutra di “consumatori”)
Gente che senza nessun perché, immersa nella propria mediocrità, a malapena in grado di leggere, si affida agli “uomini soli al comando” che fanno loro compiere azioni orribili, anche contro loro stessi e i loro affetti, senza alcun perché. Manipolandoli attraverso i media.
Ed è proprio qui, su quest’ultima considerazione, che arriva il gran finale.
Il film fa uno switch improvviso, appena dopo la cattura, il giudizio e la condanna del cattivone. Ci mostra una platea di spettatori in applauso scrosciante. Una voce fuori campo ci dice che “… E LA GIUSTIZIA ALLA FINE HA TRIONFATO”.
Ma dove siamo? Chi è quella platea indistinta che applaude?
Ahi! Ahi! Ahi!
Quella platea siamo noi, soddisfatti del Bene che trionfa, e rassicurati dalla punizione del Male.
Ma dove ci troviamo?
La camera da presa ruota e siamo nella sala di registrazione di uno show radiofonico. Assistiamo all’Epilogo da spettatori anche noi, osannanti. Che fine hanno fatto i personaggi del film? Ce lo racconta il programma radiofonico, scritto direttamente dall’FBI come azione pubblicitaria del suo operato, e impersonata da attori caratteristi e da tecnici degli effetti speciali (rumoristi), e finanziato dalle sigarette Lucky Strike, come si legge sullo sfondo del palco.
Tutto il racconto era una manipolazione. Tutto il film, e la sua fiaba americana a lieto fine, erano una manipolazione. Il Calumet era la Pipa di Magritte.
Si trattava solo uno show pubblicitario radiofonico, per rassicurare la platea osannante, formata dai tanti Ernest, e trasmessa sulle onde radio ai milioni di Ernest in abbandono.
Ma sarà vero?
E qui c’è il nuovo colpo di genio suo, del regista, di Martin Scorsese. A chiusura del film, quando si narra della morte di Mollie, la moglie indiana di Ernest che, dopo aver divorziato da lui (ergastolo! Pena a vita!) si risposa e muore a 50 anni di diabete, deve trovare chi ne legge l’annuncio mortuario ― comparso allora sulle pagine dei giornali locali.
Attimo di pausa. Spariscono gli attori, i caratteristi, i rumoristi. Spariscono tutti. Sparisce la scena
E sul palco arriva lui, Martin Scorsese, quello vero, la realtà. E legge l’epitaffio finale di Mollie. Quello vero.
Nel quale non compare menzione degli omicidi e del genocidio del suo popolo, che era poi la trama del racconto cinematografico. Ma non della fiaba di Scorsese, che puntava molto più in alto. Ai simboli.
Mentre nell’ultima scena la macchina da presa si innalza in verticale verso il cielo, in zoom out, come se si identificasse nel percorso ascensionale del fumo fuoriuscito dal calumet sacro: il rito finale di ringraziamento del Popolo Osage, la danza circolare dove tutto ritorna all’Origine.
E, dopo tutto questo scorrere di piani e strutture narrative, alzatevi e uscite dalla sala.
E guardatevi intorno.
Dove siete?