“Comandante” di Edoardo De Angelis, protagonista Pierfrancesco Favino, è un film che fa di un fascista un eroe. No, “Comandante” è un film antimeloniano. Dicono i primi: Salvatore Todaro, medaglia d’oro al valor militare, alla guida del sommergibile “Cappellini” aveva sì salvato nell’ottobre del ’40 tutti e 26 i naufraghi della nave belga “Kabalo” appena colpita e affondata, ma tutta la storia è intrisa di orgoglio militaresco e nazionalista e nel prosieguo della guerra Todaro entrò nella Xª Flottiglia MAS, quella degli irriducibili fedeli del duce. Ribattono i secondi: quando due dei naufraghi accolti sul sommergibile della Regia Marina, strappano, in nome dell’antifascismo, dei cavi elettrici per boicottare la navigazione del “Cappellini”, Todaro gli urla in faccia: “Non sono un fascista, sono un uomo di mare”. E il film si chiude con una sorta di testamento morale del comandante: “Si sono sempre salvati gli uomini in mare e sempre si farà. Chi non lo fa, sia maledetto”. Il riferimento all’oggi, alla inderogabile legge del mare, alle perigliose traversate dei migranti non potrebbe essere più chiaro.
La discussione sulla collocazione politica del film, piuttosto oziosa e vedremo il perché, ha ottenuto solo il risultato di togliere spazio alle valutazioni d’ordine puramente cinematografico e qui va detto che “Comandante” è un film emozionante e sincero, sorretto da una regia ben calibrata tra dialogo e azione, che esula dal realismo puro con idee visivamente creative sul viaggio dell’enorme pesce di ferro nelle profondità dell’Atlantico, come quando il “Cappellini” naviga tra enormi meduse minacciato dappresso dalle bombe di profondità o un gruppo di marinai issa sul ponte del sommergibile la bandiera dei pirati formando un tableau vivant che assomiglia alla celebre foto dei marines a Iwo Jima. Del film di guerra subacquea (“Uomini sul fondo” di Francesco De Robertis anno 1941, è l’esempio più calzante) ha tutti gli annessi e connessi, compreso il disegno delle diverse personalità dei militari racchiusi in uno spazio ristretto e a rischio della vita: un equipaggio imbevuto di retorica fascista e pure di senso del dovere, prima che “fanatici” sono militari che eseguono ordini e tengono anche loro famiglia, affetti, speranze.
Circa l’oziosità delle polemichette sul tenore politico di “Comandante” basterà segnalare che in sceneggiatura col quarantacinquenne napoletano De Angelis (“Indivisibii” “Il vizio della speranza”), c’è lo scrittore Sandro Veronesi (“Caos calmo”, “Il colibrì” e ricordiamo lo splendido esordio dell’88 “Per dove parte questo treno allegro”), che nel luglio del 2018 aveva rivolto a Roberto Saviano un appello di questo tenore: “Mettiamo i nostri corpi sulle navi che salvano i migranti”. Il film è stato concepito da De Angelis proprio in quell’anno. A Meloni ancora lontana da Palazzo Chigi, era rimasto colpito da un discorso dell’ammiraglio Pettorino, allora comandante generale delle capitanerie di porto, che, in piena bagarre sulle ong salva migranti, aveva citato l’esempio di Salvatore Todaro.
Da lì il regista era partito con accurate ricerche storiche, scoprendo, tra l’altro, che la copertina della “Domenica del Corriere” con l’equipaggio del “Cappellini” schierato col saluto romano, in occasione del funerale di un commilitone, era un fake di propaganda, nessun marinaio l’aveva fatto. E Todaro prima della partenza da La Spezia per la missione atlantica aveva arringato così la sua truppa: “Qui a bordo non c’è il re, non c’è il duce, ci sono io e c’è il Marcon”, il suo secondo, frase puntualmente “rivissuta” a inizio film, quando Todaro si delinea subito personalità particolare, lasciando a terra un marinaio che pochi giorni dopo avrà un attacco di peritonite: a bordo sarebbe morto. Todaro, esteta dal profilo dannunziano, è un sensitivo, “sa” che non vedrà mai la figlia nascitura. Militare in missione nonostante la schiena, gravemente offesa in un incidente, lo tormenti - l’idea di pensionarsi deve atterrirlo, la moglie Rina (Silvia D’Amico) si rassegna -, deve intercettare e distruggere il naviglio sospettato di trasportare armi nemiche.
È il caso del “Kabalo”, ha in pancia aerei della Raf, ma lo si saprà dopo, Todaro, nel dubbio, colpisce, affonda, ma salva l’equipaggio naufragato, che senza il suo intervento sarebbe destinato a morte certa. Non ha mezzo dubbio: “Li tiriamo su. Noi affondiamo il ferro nemico, ma l’uomo lo salviamo”. Non basta, punta il “Cappellini” sulle Azzorre per scaricare i salvati, contravvenendo agli ordini e correndo un bel rischio, deve infatti navigare in emersione per tre giorni, tanto si è affollato il sommergibile che è piena di naufraghi pure la torretta e andar sotto li condannerebbe ad affogare. Il suo secondo, Marcon (un intenso Massimiliano Rossi), s’incazza, ma esegue. “Siamo in guerra - dice Todaro a Georges Vogel (Johan Heidenbergh) comandante del “Kabalo” - ma restiamo uomini”. Arrivati alle Azzorre, a Vogel che gli chiede: “Perché l’ha fatto?”, Todaro con semplicità risponde: “Perché siamo italiani”.
Tornando alla Storia, pare che l’ammiraglio tedesco Dönitz non avesse gradito l’impresa, rimprovero poco efficace con uno come il Comandante, che pochi mesi dopo, nel gennaio del ’41, avrebbe cannoneggiato e affondato, tra le Canarie e la costa africana, il piroscafo armato inglese “Shakespeare” e quindi salvato e portato in salvo a Capo Verde 22 superstiti. Todaro morirà nel sonno il 14 dicembre 1942, a 34 anni, ucciso da una scheggia durante un mitragliamento aereo britannico al largo della Tunisia.
“Comandante” gioca efficacemente su un’alternanza di registri emotivi, tra scene di guerra e bozzetti di vita ordinaria e straordinaria a bordo, ci sono il corallaro partenopeo Vincenzo (Gianluca di Gennaro) che si immola per tagliare il cavo di una letale mina subacquea e il mitragliere De Angelis (Giulio Greco) che, mortalmente ferito, chiede e ottiene di poter assistere all’affondamento della “Kabalo” prima di spirare, c’è il cuoco Gigino Magnifico (Giuseppe Brunetti) che impara dai naufraghi belgi a friggere le patate e poi canta accompagnandosi col mandolino, “Oi vita, vita mia” all’equipaggio riunito coi naufraghi. Italiani bravi cristi, lo stereotipo diventa plausibile realtà in un climax di affratellamento crudelmente transitorio. Aiutato dal sorridente Reclerq (Johannes Wirix), interprete dal fiammingo all’italiano, una riuscita figura quasi angelica, un Ismaele melvilliano di commovente innocenza tra i clangori ferrigni della guerra.
“Il fascismo è dolore”, commenta il medico che, a inizio film, si occupa della schiena martoriata di Todaro. Dolore, illusione, vampe di nazionalismo patriottico, orgoglio militare, retorica che crea destini e nemici: i sommergibilisti marciano inquadrati per imbarcarsi sul “Cappellini” cantando in toni marziali “Un’ora sola ti vorrei”. Aleggia il mito della “Bella morte”. Anche questo è stato il fascismo. Un’atmosfera visitata con occhio filologico da De Angelis e dalla ricca produzione di Indigo Film e Rai Cinema, il budget era di 15 milioni, per l’Italia assai alto. Non minore l’impegno di 01 Distribution, con 552 sale. Il sommergibile “Cappellini” è stato “ricostruito” basandosi sui film bellici dell'epoca fascista, la scenografia di Carmine Guarino e i costumi di Massimo Cantini Parrini sono di eccellente livello, così come la fotografia rétro sui toni caldi di Ferran Paredes Rubio. Azzeccate le musiche di Robert del Naja (frontman dei Massive Attack) con echi di cupa solennità. Due parole su Favino, che dà a Todaro, messinese ma arrivato bambino a Chioggia, un discreto accento veneto, senza calcare ed evitando l’overacting col rischio di cannibalizzare il personaggio con la maschera. È perfetto, ha misura e, quando serve, dismisura.