Quando al cinema si maneggia un forgiatore di Storia e leggende come Napoleone è quasi impossibile usare le mezze tinte, l’Empereur reclama grandeur emotiva e scenografica, clangori di guerra, una certa glassa retorica degna dell’Alessandro Magno con feluca di traverso che terrorizzò le corti d’Europa. Non sfugge alla marmorea legge il “Napoleon” di Ridley Scott, già di suo regista incline alla sottolineatura ornamentale e ai tripudi visivi, fin da “I duellanti” del ’77, gustoso esordio con la drammatica e picaresca guerra privata tra, guarda il caso, due ufficiali napoleonici in nome di quel malinteso dell’anima tutto maschile che si chiama onore.
Scott a 85 anni si è trovato fra le mani un progetto a budget pingue, 200 milioni di dollari forniti da AppleTv, ed è lecito chiedersi se ne ha fatto buon uso in nome dell’entertainment massivo. Risposta: sì con riserva, siamo alla sufficienza, lontana da suoi top arcinoti e dal suo flop sciagurato, “House of Gucci”. E nelle pause tra una campagna militare l’altra non ci si annoia oltre misura, come sostenuto da alcuni. Il film è un giocattolone di 150 minuti sfarzoso per l’occhio, poco da dire, le uniformi dell’epoca napoleonica, tra Vieille Garde e colbacchi, alamari, cariche a cavallo e ussari non hanno eguali, le ambientazioni sono sciccose, ci si spara e ci si affetta con generosità tra austriaci, russi, inglesi e francesi. E la scansione degli eventi storici procede semplice, lineare, se pur con discrete omissioni, a partire dal ruolo giocato da Napoleone nella diffusione delle idee rivoluzionarie tra le nazioni europee e nelle riforme sociali, il Codice Civile in primis.
Ma d’altra parte la sceneggiatura di David Scarpa giostra sulla polarità di amore e guerra per spremere al meglio il divo assoluto, Joaquin Phoenix e una magnetica, seduttiva Vanessa Kirby, il condottiero corso e l’aristocratica Giuseppina de Beauharnais uscita dal terremoto rivoluzionario, a differenza di Maria Antonietta (Catherine Walker), con la testa sulle spalle. Oggetto di fatale attrazione mai spenta, donna adorata, perdonata per le debolezze d’alcova con un ufficialetto antico suo amante mentre lui bombarda le piramidi in Egitto, Josephine verrà costretta a un divorzio di Stato perché ci voleva un erede e tra i due mancava la chimica giusta, nonostante, con altri partner, fossero entrambi in grado di procreare. Il generalissimo e la donna fatale, due personalità toste a disegnare il filo rosso del film, così l’audience ingrassa, restano contenti gli appassionati sia del genere bellico-storico che di quello romantico.
Amore e guerra come nel film omonimo di Woody Allen, ispirato a “Guerra e Pace” di Tolstoj, ma qui non si ride, Phoenix è un Bonaparte intuitivo, sagace e decisionista in guerra, che prima insegue - a cannonate, e come se no? - una posizione di vertice, poi sente sulle spalle l’onere di difendere la Repubblica dalle turbolenze anarcoidi e dal revanscismo lealista post rivoluzione, quindi si fa serioso, incline all’ira (ricorda davvero, come ben segnalato da Michele Anselmi, il Commodo de “Il gladiatore”), ma giuggiolone con Josephine, sentimentalmente monogamo (occhio, “Napoleon” è fiction), diviso tra la bellissima donna della vita e la Ragion di Francia, scivolata dal Terrore di Robespierre (nel film un paffutello Sam Troughton) al 18 Brumaio 1799, il colpo di Stato del nostro eroe che diventerà primo console, re e imperatore nel 1804, a 35 anni. “Io non sono come gli altri uomini” dice di sé. Stando alle performance sessuali con Giuseppina sembrerebbe sotto la media, però è baciato dal talento militare e dalla mancanza assoluta di scrupoli nel mandare al macello i suoi soldati (tantissimi, i tre milioni suggeriti in chiusura di film paiono un po’ troppi).
Lo dimostra per la prima volta da capitano della Guardia Nazionale, nel 1793, quando sloggia con tattiche spregiudicate gli inglesi da Tolone e in premio viene nominato generale di brigata, per passare lesto a generale del Corpo d’Armata dell’Interno tre anni dopo, spianando a bordate i monarchici che marciano sulla Convenzione. Una carriera lampo e campagne di guerra a raffica, in Italia, in Egitto, ad Austerlitz contro russi e austriaci nel dicembre 1805, confronto quest’ultimo trionfale per Bonaparte, fresco Imperatore dei francesi, restituito sullo schermo da Ridley Scott - e c’era da aspettarselo - con emozionanti coreografie stracolme d’impeto, coronate da una parte conclusiva che paga un debito alla sequenza dello sbarco americano in Normandia nello spielberghiano “Salvate il soldato Ryan”, con l’acqua arrossata dal sangue dei soldati americani. Ad Austerlitz c’erano stagni ghiacciati, ad affondare sanguinanti furono gli austriaci, fatti a tocchetti dalla premiata artiglieria del còrso.
Buon galleggiatore in un’epoca di camaleontismo politico, tentacolare nella sistemazione di fratelli e congiunti, Napoleone soggiace a una hybris fatale e invade la Russia nel 1812, s’ingolosisce dopo la vittoria di Borodino, punta Mosca che trova deserta e data alle fiamme dai russi. Non ascoltando i consigli attendisti del generale Junot (Mark Bonnar) va incontro alla disfatta, con enormi perdite per la Grande Armée, complici il terribile inverno russo e il genio di Kutuzov il temporeggiatore, comandante dell’esercito dell’imperatore Alessandro I (Edouard Philipponat). Di Kutuzov il film non parla e neppure delle débâcles di Bonaparte nelle battaglie navali di Abukir nel 1798 e di Trafalgar nel 1805, idem per le musate prese in Spagna a opera della guerriglia locale. Se l’ammiraglio Nelson viene ignorato, forse per non sforare il preventivo, si prende tutto il ruolo di nemesi il duca di Wellington.
Dopo l’Elba, ecco i Cento Giorni dell’effimera resurrezione e Waterloo, epitome di ogni disfatta, e qui il regista, senza lungaggini, illustra a dovere - anche se ci saremmo aspettati una portata più generosa - la battaglia sui campi vicini alla città belga. Dove lo aspetta il duca di Wellington (Rupert Everett), sorrisetto sarcastico e uno spiccato, albionico superiority complex, messo alla prova dai 150.000 della ormai ex Grande Armée e salvato dall’arrivo dei prussiani guidati da von Blücher. Militarmente “ei fu”, per la soddisfazione delle monarchie assolute europee e dell’eterno ministro degli Affari esteri francese Talleyrand (Paul Rhys), un politico più trasformista di Arturo Brachetti.
Restava l’esilio nella sperduta Sant’Elena. Morta Josephine, svanita la dignità imperiale, il sipario, quasi una ghigliottina della Storia, cala sul Bonaparte intento a raccontar frottole a un paio di bambine: “Sono stato io a incendiare Mosca”. Proprio come quegli squilibrati che, nelle barzellette, sostengono di essere Napoleone. Finalino triste e solitario, già all’inizio una scritta ammoniva: “Il popolo è spinto dalla miseria alla rivoluzione e dalla rivoluzione ricondotto alla miseria” e introduceva a una plebaglia pezzente gasata per la decapitazione Maria Antonietta. Un messaggino squisitamente reazionario, della serie “tanto rumore per nulla”. Liberté, Égalité, Fraternité? Quisquilie.
Napoleone in mano a un angloamericano poteva finir peggio e non c’è da dolersi se la bellissima cattedrale gotica di Lincoln, vicino a Sheffield, è diventata Notre-Dame e per il bastione di Tolone si è fatto ricorso al Forte Ricasoli di Malta. Il resto lo fanno gli effetti speciali per la moltiplicazione delle truppe, la sapiente fotografia di Dariusz Wolski, i costumi di David Crossman e Janty Yates (uno dei punti di forza) e naturalmente il magistero nel movimento masse del vegliardo regista. Filmone doveva essere e così è stato, il prodotto, dopo le sale - da noi distribuisce Eagle Pictures - è destinato a AppleTv+, si parla di una versione director’s cut di quattro ore o, più plausibilmente, di una miniserie.
Napoleone come soggetto cinematografico è argomento vasto e ciascun regista se n’è appropriato dipingendo un personale ritratto del primo imperatore di Francia. Data l’eccezionalità dell’ingombrante personaggio c’è chi l’ha subìta al punto di immaginarsi cinematograficamente onnipotente come lui, parliamo di Abel Gance e del suo “Napoleon” interpretato da Albert Dieudonné e datato 1927, più che un film un’impresa. Con 21 versioni, la prima di 333 minuti, uso della camera a mano e di immagini sovrapposte, colori diversi a tutto schermo a denotare sogno, guerra, violenza, speranza, cinepresa fissata su cavalli oppure oscillante come un mare cattivo per indicare la Francia minacciata dalla tempesta anarchica. Simbolismo spinto, recitazione trascendente (Artaud nel ruolo di Marat!), un film mitologico, visionario, “futurista”: doveva essere il primo di otto film, Gance ne girò quattro.
Sul podio di miglior battaglia napoleonica sullo schermo sale senza discussioni “Waterloo” di Sergej Bondarčuk, anno 1970, produzione mastodontica targata Dino De Laurentiis con quasi ventimila comparse per ricreare lo scontro tra il còrso (Rod Steiger) e Wellington (Christopher Plummer). Il côté romantico ha visto in azione il Napoleone di Charles Boyer innamorato perso di Greta Garbo in “Maria Walewska” di Clarence Brown (1937) e quello di Marlon Brando in “Désirée” di Henry Koster (1954). La Palma d’oro per il cast spaziale va a "Napoleone Bonaparte” (1955) di Sacha Guitry: Raymond Pellegrin (Napoleone), lo stesso Sacha Guitry (Talleyrand), Michèle Morgan, Serge Reggiani, Jean Marais, Pierre Brasseur, Jean Gabin, Yves Montand. Dimenticato qualcuno? Ah sì, Orson Welles e Erich von Stroheim al suo ultimo giro nei panni di Beethoven. Grandeur comunque, cui sono sfuggiti, optando per una chiave intimista, l’ucronico, sapido “I vestiti nuovi dell’Imperatore” di Alan Taylor (2001) con Ian Holm-Napoleone, sfuggito a Sant’Elena grazie a un sosia e che a Parigi in attesa della impossibile riscossa vende meloni e il garbato “N (io e Napoleone)” di Paolo Virzì (2006) ambientato nell’esilio sull'isola d’Elba dove l’insegnante Martino (Elio Germano), accanito antifrancese, cova l’idea di uccidere l’Imperatore (Daniel Auteil). Non ci riuscirà, sopraffatto dall’aura ammaliante dell’Empereur. Da leggere il romanzo ispiratore del film, “N” di Ernesto Ferrero.
E all’orizzonte si staglia un altro Bonaparte con tutta la voglia di spazzar via la concorrenza, c’è Spielberg al lavoro per una serie basata su “Napoleon”, sceneggiatura di Stanley Kubrick. L’ennesima cannonata.