di
ELLA BAFFONI
È raro, di questi tempi, che il cinema entri in fabbrica. Non nel mondo del lavoro, o nel sociale e nei meccanismi che producono l'evoluzione tumultuosa in peggio: Ken Loach ne è maestro. Ma la fabbrica è un mondo a parte. Ecco perché è singolare “Palazzina Laf”, opera prima di Michele Riondino, tratta dal libro “Fumo” di Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto cofirmare con il regista la sceneggiatura. Tra gli attori, oltre a Michele Riondino, Elio Germano e Vanessa Scalera. Diodato ha scritto la canzone “La mia terra”.
La fabbrica è l'Ilva di Taranto, anche in questi mesi alle prese con una crisi molto seria. Più di diecimila operai, una città devastata dall'inquinamento, un'acciaieria in comproprietà di una multinazionale, Arcelor Mittal, e dello Stato. Intanto la decarbonizzazione si è fermata, i nuovi impianti finanziati dal Pnnr sfumati, e la crisi finanziaria e di liquidità è enorme.
Riondino entra nella fabbrica per raccontare una storia forse dimenticata, quella della Palazzina Laf, una delle più gravi vicende di mobbing collettivo. Laminatura a freddo, era il nome dell'edificio, Laf, ma il nome inganna: nessuna produzione industriale, ad essere laminati erano invece gli impiegati e i dirigenti, una settantina, che nel corso di una ennesima cessione ai Riva rifiutavano di perdere le loro qualifiche e di firmare la novazione, l'accettazione di lavorare come operai. Venivano mandati lì a far nulla, a guardare il muro, lo spettro del licenziamento sempre presente, la separazione dal resto fabbrica totale.
Un ghetto. Una situazione che, mese dopo mese, ha prodotto sofferenza mentale e forti disturbi. Protagonista della storia è Caterino, operaio semplice addetto alla ripulitura delle camere dell'altoforno, una caienna, il quale non vede l'ora di essere anche lui “pagato per non far nulla”. E si presta volentieri, in cambio della “promozione”, a fare la spia per uno dei capetti di fabbrica.
Il passaggio dal lavoro sporco e pericoloso al finto ufficio della Palazzina Laf seduce Caterino all'inizio, affascinato da una futura scalata sociale. Lascia la masseria avvelenata dalla fabbrica, le pecore morte una dopo l'altra, per andare ad abitare nel quartiere Tamburi, uno dei più inquinati della città, nell'appartamento di un parente affacciato sull'acciaieria.
Mentre lui fa la spia e recita la parte dell'impiegato, gli impiegati veri, i suoi compagni di sventura, vengono colpiti dalle sue delazioni, la tensione sale. Ma lui ancora non capisce. Non capirà fino alla fine, la recitazione di Riondino è straniata e niente affatto empatica, del resto non è facile simpatizzare con una spia. La fine è nota, per chi ricorda le cronache dell'epoca, gli anni '90. La Palazzina Laf è diventata un simbolo paradossale di “quanto grave è stato il ricatto occupazionale subito dalla città e dagli operai - ha detto Michele Riondino presentando il suo lavoro. “Questi lavoratori difendono le loro competenze e la loro dignità, e la storia di altri lavoratori disposti a vendere la propria dignità e i loro compagni di lavoro per ricoprire un ruolo che non gli compete”.
La strategia dei reparti confino è stata usata da diversi imprenditori, non solo i Riva negli anni '90, ma anche gli Agnelli fin dagli anni '50, per persuadere e piegare i lavoratori. Al tempo della “Palazzina Laf” i lavoratori almeno erano protetti dall'articolo 18, che vietava il licenziamento senza giusta causa, e questo anche andrebbe ricordato. L'articolo 18 è stato attaccato nel 2012 e abrogato nel 2014, governava la sinistra.
Il merito del film, e probabilmente anche l'intenzione del regista, è di riportare l'attenzione a quello che succede nelle fabbriche italiane. Che ci sono anche quando gli operai non manifestano a difesa del posto di lavoro: lì avvengono mutamenti, il lavoro cambia, i meccanismi, nel silenzio, diventano sempre più crudeli. Nel silenzio si decentra, nel silenzio aumenta la produttività, nel silenzio aumentano gli omicidi bianchi, nel silenzio si inquina. E si spezzano le vite di chi ci lavora.
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