di
ANDREA ALOI
La chimera, mitologicamente, era un animale mostruoso ed eterogeneo, puzzle di leone, drago e capra. Mistero minaccioso. La chimera è anche un desiderio non realizzabile e però senza una qualsiasi meta, fosse pure un miraggio, merita vivere, morire? Alice Rohrwacher chiude con “La chimera”, frutto maturo, coinvolgente di una fine sensibilità umana e registica, la trilogia imperniata sul tempo trascorso e l’ostinata memoria, iniziata con “Le meraviglie” e proseguita con “Lazzaro felice”. È un altro film mosso dal desiderio (miraggio?) di far vedere l’invisibile, nel tempo senza tempo della civiltà etrusca, al confine di vita e morte. Dove l'exitus non è annullamento e il bosco gronda segreti, se solo ci apriamo a un sentimento silvano, panico, nel senso del dio Pan, satiro divino e presente nella Natura. Proprio quello che non viviamo più, smemorati di noi stessi, delle nostre radici più intime, delle ricchezze e bellezze assolute che non ci meritiamo.
Primi anni Ottanta, il trentenne inglese Arthur (Josh O’Connor), torna piuttosto scalcagnato nel paesello della Tuscia che guarda il Tirreno dopo un soggiorno in galera, gli fa festa l’amica ghenga stracciona dei tombaroli, saccheggiatori professionisti di sepolture etrusche. Arthur ha il dono di avvertire il vuoto, è un rabdomante infallibile e con lui Pirro (Vincenzo Nemolato) e compagnia pregustano sontuose cacce di frodo in barba ai carabinieri, monili, vasi, suppellettili, c’è un mondo ctonio da violare in nome del denaro. Arthur si rifugia nella sua baracca abusiva sulle pendici del castello con un chiodo nel cuore, il ricordo dell’amata Beniamina (Yile Yara Vianello), ragazza perduta, scomparsa. Una giovane madre, con figlia adolescente e un bambino piccolo, la brasiliana Italia (Carol Duarte) potrebbe “guarirlo”, ma il sensitivo segue il suo filo rosso. Lo condurrà, misteriosamente, oltrepassata l’ultima soglia, a riabbracciare Beniamina. A ricapitolare la vicenda, qua e là nei 130 minuti del film, un cantastorie di paese. Leggenda, oralità, tradizione a valicare i secoli: tutto scorre, l’Uomo rimane uguale.
“La chimera” è tessuta di simboli non esoterici, quasi palpabili e popolata di donne. Ci sono le figlie aviducce di Flora (Isabella Rossellini), anziana possidente in disarmo che ospita la serva-allieva di canto Italia, senza sapere che la ragazza nelle antiche stanze dà ricovero ai figli; ci sarà ancora lei nel gruppo di madri e figli che occupano la stazione abbandonata di Ripabella, presso cui trascorrerà una sola notte Arthur, troppo inseguito dal destino e dall’eterna Beniamina per scegliersi un porto. C’è una delle collaboratrici del ricettatore di antichità etrusche, che confessa: “Amo gli etruschi, così bohémien, lontani dal mito della romanità. Se ci fossero ancora gli etruschi, non ci sarebbe tutto questo machismo in Italia”. In capo all’organizzazione deputata a trasformare in oggetti d’arte vendibili, fornendo certificati di autenticità, i reperti trafugati c’è una donna (Alba Rohrwacher) ma non per caso ha un nome maschile, Spartaco.
Picco emozionale della “Chimera” è la
scoperta grazie ad Arthur di una tomba intatta,
“vigilata” dalla stordente, mirabile statua di
una sorta di Diana non cacciatrice che tiene in
grembo un pesce e al suo fianco è sfiorata da un
leone affettuoso. Una divinità, per gli Etruschi
compresente al mondo sensibile. I tombaroli,
fino a quel momento quasi simpatici, estrosi,
una banda di fluidi fuorilegge amanti delle
sfilate en travesti sul trattore per le vie del
paese, si mostrano per ciò che sono: stupratori
di misteri e bellezze, miserabili ingranaggi di
un mercato ripugnante e, li accusa Italia,
sacrilego: “Quella non è roba vostra, appartiene
a loro”. “La chimera” ci farà vedere/immaginare
che è proprio così.
Mentre già credono di aver fatto il colpo della vita, Pirro e soci vengono sorpresi dai carabinieri (militi un po' particolari in verità) e pur di non scappare a mani vuote mutilano la statua, decapitandola. Spartaco la venderà come la nuova Nike di Samotracia, una Venere di Milo etrusca. Segno di un mondo senza tabù che monetizza il Sacro. Arthur l’inglese si ribellerà, sa di aver incontrato un mondo “magico” e ne ha riverenza. Anche il biondo sbandato Cico (Luca Chikovani) è straniero, un altro sensitivo-rabdomante che “sente” quel retaggio, a differenza dei tombaroli italiani: gli antichi ci hanno lasciato la bellezza, noi quel retaggio lo picconiamo. Sulle tombe in riva al mare vigila una ciminiera, altre sepolture vengono cercate tra orrendi edifici abbandonati, semidistrutti. Ecco cosa tramanderemo ai posteri.
Il contrasto tra Armonia e Caos, Moderno e Sacro, quasi detta un legame con la preveggenza pasoliniana della nostra mutazione antropologica, ma Pasolini “rivive” nel film di Alice Rohrwacher anche coi corpi di Arthur e Italia, volti vibranti verità, cinematograficamente accuditi in modo commovente. Arthur di bianco vestito ha un’aria disillusa che pare una crasi tra Marcello (Mastroianni) e il suicida Steiner (Alain Cuny) della “Dolce vita” e potentemente felliniano (l’aggettivo è abusato, ma rende l’idea) è il momento epifanico della statua (il Cristo elitrasportato nella “Dolce vita”, l’enorme testa della Venusia emergente dalle acque della Laguna nel “Casanova”), al pari degli affreschi ipogei che sbiadiscono al contatto con l’aria, scena “figlia” del ritrovamento inusitato durante gli scavi della metropolitana in “Roma”). Certi piccoli brani velocizzati nelle scene di natura fredde, piovose rimandano ancora a Pasolini (“Uccellacci e Uccellini”: Totò e Davoli vestiti da fraticelli sgambettano alla Ridolini) e a “Tre nel Mille” (1971) di Franco Indovina, protagonisti tre picari straccioni e buffoneschi impegnati a sopravvivere tra le ostilità dei pretesi secoli bui (Carmelo Bene, Franco Parenti e Gianfranco Dettori erano, rispettivamente, Pannocchia, il cavaliere Fortunato e Carestia: un parterre de roi).
Si potrebbe continuare con “Bella e perduta” (2015) di Pietro Marcello: Pulcinella a unire vivi e trapassati, un Paese sfregiato senza più devozione per la Natura, una innocenza perduta simboleggiata da un giovane bufalo. “La chimera” offre mille suggestioni, senza che Rohrwacher, anche sceneggiatrice con Marco Pettenello e Carmela Covino, ceda al citazionismo colto, questo suo lavoro vive anche di sedimenti cinematografici, interrogando se stesso, muovendosi su diversi formati, 16 millimetri, super 16 mm , 35 mm. Da segnalare almeno una parte del team tutto al femminile, Hélène Louvart alla fotografia, montaggio di Nelly Quettier, scenografia di Emita Frigato. Produce Tempesta di Carlo Cresto Dina con Rai Cinema. In sala con 01 Distribution.
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