“The Holdovers-Lezioni di vita”, commedia agrodolce del rodato Alexander Payne, alza il sipario sull’innevato “New England del Natale 1970. Un enorme parco, un palazzone, qualche casa annessa. Il Barton, storico college per figli di gente ricca più qualche borsista, è una high school con residenza per studenti, una sorta di pre-college e sta spopolandosi per le vacanze. Non proprio del tutto perché una manciata di studenti- i cinque holdovers del titolo, letteralmente: i rimanenti - non tornerà a casa, chi per il costo del viaggio, chi per “motivi familiari”, classica formula molto scolastica che può celare problemi. Niente albero, regali, cenone, solo studio e salubre ginnastica nel parco sottozero. Un professore a vigilare, tocca all’ultra cinquantenne Paul Hunham (Paul Giamatti), non amabilmente soprannominato dagli studenti “occhio sbilenco” causa un discreto strabismo e detestato per la severità. Insegna storia antica e ama allo stesso modo Democrito, la Guerra nel Peloponneso, la pipa e il whiskey “Jim Beam”, è un lupo solitario, un disilluso di spirito acre e beffardo. Passarsi le vacanze di fine anno con lui è una condanna.
Il cinema americano non ha mai smesso di sfornare commedie di ambientazione scolastica e non solo, più o meno dai colori pastello (in un sottogenere per famiglie era specialista assoluto negli anni Ottanta il regista John Hughes, sceneggiatore tra l’altro di “Mamma, ho perso l’aereo”), storie focalizzate sul disagio giovanile e i rapporti tra ragazzi e docenti, istinti libertari e istituzione educativa, coming of age e mondo dei grandi. Temi al centro del recente “Armageddon time” di James Gray e, andando a ritroso, del celeberrimo “L’attimo fuggente” di Peter Weir dell’89, protagonista il professor Keating (Robin Williams), proprio agli antipodi di Paul Hunham per quanto è seduttivo, ispirato, uno sprone al pensiero forte e libero dei suoi ragazzi, in prima fila Neil, diviso tra carriera d’attore e volontà paterna. Il film, ambientato alla fine dei Cinquanta, si snoda nel conflitto tra le urgenze e le passioni giovanili e una scuola intimamente conservatrice/repressiva. Wasp, in una parola: anglosassone, bianca e protestante. Puritanesimo e ordine. Come alla Barton, fortezza dei sani principi americani, ipocrita perbenismo compreso.
In “The Holdovers” c’è qualcosa di più, che assomiglia tanto a una lettura di classe del sogno-incubo americano. Se “di classe” non piace, diciamo “secondo il censo e il potere del denaro”. Il professor Hunham, per dire, viene rimproverato dal preside perché non ha promosso un cretino fosforescente e però figlio di uno dei generosi finanziatori della Barton. Altro esempio: la pattuglia dei destinati alle non-vacanze si riduce drasticamente al solo Angus Tully (Dominic Sessa), orfano di padre mollato dalla madre che “deve” concedersi un viaggio di nozze col suo nuovo compagno, gli altri quattro grazie al benestante padre di uno di loro, Jason, partono in elicottero per spassarsela sugli sci e per i due più piccoli, Alex, figlio di mormoni e il coreano Ye-Joon, che non ha una lira per pagarsi il breve rientro in patria, è un miracolo. Invece per Teddy Fior di Coglione (Brady Hepner) è quasi un atto dovuto, trattandosi di un insolente a sinapsi svogliate, simbolo perfetto di bullismo e superiority complex monetario. E infine, a completare un terzetto di solitudini esacerbate da un periodo dell’anno emotivamente sensibile, si aggiunge al prof e ad Angus, ragazzone brillante col cuore in burrasca, la responsabile delle cucine Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph) una monumentale Mamie nera che ha appena perso il figlio ventenne in Vietnam. La “sporca guerra”, tenuta fuori dai cancelli della Barton, come qualsiasi venticello di contestazione, ci rientra col dolore di Mary, il suo ragazzo non aveva i mezzi economici per andare all’università ed era finito in una scuola militare. Una frase di Paul Hunham incornicia a modino il côté “politico” del film: “I ricchi usano i poveri come carne da cannone e la parola ‘affidabilità’ ormai si usa solo nella pubblicità delle banche”.
A sigillare il personaggio di burbero che in corso d’opera mostrerà, secondo i canoni narrativi più classici, una coratella sensibile, un suo motto autobiografico: “La vita è come la scala di un pollaio, corta e piena di merda”. Normale che per tre quarti di film Paul tormenti l’indisciplinato Angus, minacciandolo di punizioni esemplari e surreali a Natale imminente e Barton deserta. Mary, trangugiando lacrime, tiene acceso il focolare di questa famiglia di fatto e si aprono spiragli, prima con una bicchierata a casa di Lydia (Carrie Preston), nello staff della scuola e cameriera in un bar sotto le feste per arrotondare. Paul avverte un certo feeling reciproco, per l’occasione si deodora accuratamente le ascelle, foriere per motivi endocrini di zaffate inquietanti, ma Lydia ha un fidanzato che si presenta a mezza festa: l’ennesima delusione. Angus in compenso ha preso un po’ d’animo e coinvolge il prof e Mary in un viaggio a Boston: la cuoca andrà a trovare la sorella incinta, lui ha un obiettivo altrettanto nobile. Ormai sono una squadra, sono cambiati dentro, Mary ha iniziato a elaborare il lutto, Angus grazie al prof è più in sesto. Partono confessioni tra i due, roba pesante per vite non facili, una puntata verso una consapevolezza quasi adulta, l’altra in rotta sul mare aperto di un ritrovato orgoglio. Si sono incontrati, scontrati, si sono arricchiti a vicenda, non si dimenticheranno mai (e qui si sente un’eco di “Scoprendo Forrester”, un Gus Van Sant del 2000 con Sean Connery ombroso premio Pulitzer e Rob Brown, giovane talento della scrittura in fuga dal Bronx). Intanto incombono, alla riapertura della Barton, nuvole nere. Anche Angus dovrà finire alla scuola militare? E quel flacone di pillole, cosa contiene? Quali sorprese ha in serbo la sua anaffettiva madre? E Paul Hunham saprà trovare una via d’uscita per lo studente-figlio adottivo?
Paul Giamatti è il formidabile motore di “The Holdovers-Lezioni di vita”, 143 veloci minuti che convincono (anche) per merito del suo magnetismo calibrato sui mezzi toni, tra lo smagato e l’ironico. Meritata la candidatura all’Oscar come miglior attore, sarà dura però, è in lizza con Cillian Murphy, Jeffrey Wright, Bradley Cooper e Leonardo Di Caprio. Cinque le candidature totali per “The Holdovers”, tra cui quella per la miglior sceneggiatura (David Hemingson, che firma anche il soggetto, ha fatto un egregio lavoro) e il miglior film, comunque una soddisfazione per Alexander Payne, tornato a girare con Giamatti quasi vent’anni dopo “Sideways-In viaggio con Jack”, deliziosa commedia on the road tra i vigneti californiani di uno sposo promesso e faccia da schiaffi, il Jack del titolo (Thomas Haden Church), in compagnia di Raymond-Giamatti, professore di inglese fresco di divorzio, un personaggio su misura per il morbido Paul, come sarebbe stato nel 2010 il Barney Panofsky nella “Versione di Barney” di Richard J. Lewis, tratto dal romanzo omonimo di Mordechai Richler, l’ennesimo caso di un libro che non esce malmenato, anzi, da una riduzione cinematografica.
“The Holdovers” è prodotto da Miramax con Universal, che distribuisce in Italia. Buona la risposta del pubblico in una stagione felice per il cinema meno predigerito e brandizzato.