di
GIOVANNA BRANCA
e
PAOLO BRANCA
Deu ci seu, ovvero l'epopea di una sconfitta. Premessa: questo film ha rischiato di non vedere mai la luce. Troppo alti i costi di produzione per i tre giovani registi esordienti, Michele Badas, Michele De Murtas e Nicolò Falchi (ma il primo già da anni attivo nel mondo del cinema, come operatore di macchina in particolare con i Manetti Bros), anche se il documentario – prodotto dal Circolo della Confusione di Claudio Marceddu - si compone esclusivamente di materiale di archivio e di interviste. I documenti RAI e delle TV private hanno costi molto alti, e francamente non se ne capisce il motivo.
Deu ci seu, Io ci sono. Quando? Sabato 15 giugno 1997, giorno dello spareggio a Napoli tra Cagliari e Piacenza per la permanenza nella serie A di calcio. Ma in realtà Deu ci seu soprattutto nelle settimane e nei giorni precedenti, quando si prepara l'avventura di migliaia di tifosi sardi nel capoluogo campano. Come finirà l'evento sportivo è negli almanacchi del calcio: contro ogni previsione, il Cagliari viene sconfitto per 3 a 1 ed è condannato ad una nuova retrocessione in Serie B. Ma sono i volti, le storie, la vera e propria odissea di migliaia di giovani, donne, anziani tifosi di ogni parte della Sardegna (e non solo) a raccontare l'altra faccia di una sconfitta. Con qualche rischio di retorica, come è inevitabile, comunque tenuto a bada dai giovani registi.
La storia dell'armata Brancaleone che parte alla ventura dal porto di Cagliari è un'istantanea della Storia dell'Isola, quella che come raccontano gli autori si era scoperta Italia con la vittoria dello scudetto nel '70: loro neanche erano nati, ma Deu ci seu raccoglie i fili di quell'epopea di riscatto e appartenenza. Anche chi interviene alla presentazione al cinema Troisi di Roma tiene a dire questo: io c'ero. E ad aggiungere un tassello di quel racconto corale che è il film, la trasferta, il gioco della squadra che scende in campo. La vittoria o la sconfitta sono subordinate a quella narrativa che costruisce unidentità, fratellanza e sorellanza, dal mercato di San Benedetto di Cagliari all'entroterra sardo. Il calcio viene dopo un'esperienza condivisa – un momento nel tempo che abbraccia tutto il tempo e lo spazio.
Come in una sceneggiatura costruita ad arte, c'è un prologo che sembra indirizzare la storia in tutt'altra direzione. Domenica 2 giugno, ultima giornata di campionato. Il Cagliari allenato da Carletto Mazzone è già virtualmente retrocesso: per arrivare a uno spareggio deve battere il Milan a San Siro e sperare contemporaneamente nella sconfitta del Perugia a Piacenza. Una probabilità su dieci, calcolano i giornali dell'epoca. Ma il "miracolo" si avvera: il Cagliari vince 1 a 0 con un gol di Muzzi, il suo attaccante più prestigioso, e dopo aver fallito un calcio di rigore, tanto per aggiungere altro pathos. Per due minuti, dopo il fischio finale, tutti i giocatori sono riversi a terra, ammutoliti, nell'attesa della fine della partita di Piacenza. Solo allora può scatenarsi l'esultanza.
È fatta? Sembra di sì: il viaggio a Napoli, sede scelta tra le polemiche per lo spareggio (perché non Roma, più vicina all'isola, già penalizzata dalla distanza?) sembra più che altro l'occasione per una grande festa in trasferta. Ma è proprio ora che inizia l'odissea. Come portare migliaia di tifosi sardi (alla fine se ne conteranno ventimila) al San Paolo? Tolti gli aerei, dai posti limitati e dai costi proibitivi, resta il traghetto per Napoli (un collegamento a settimana) e quello quotidiano per Civitavecchia, più i treni e gli autobus per le centinaia di chilometri rimanenti. Poco o nulla, rispetto alle richieste che sempre più numerose arrivano dalla Sardegna. Inizia così una vera trattativa "politica" che coinvolge la Regione e le stesse forze di polizia. Risultato: vengono autorizzate in extremis alcune corse speciali via nave e aumentati i collegamenti via bus per chi arriverà da Civitavecchia.
La scena che le telecamere e i fotografi riprendono al porto di Cagliari è impressionante. La nave è letteralmente stipata di viaggiatori, con gli striscioni appesi in bella mostra sui ponti più alti, e tantissimi altri sono a terra in attesa di imbarcarsi. Se non fosse per una drammaticità del tutto assente (il clima anzi è a dir poco festoso) quei fotogrammi riporterebbero alla mente le scene viste in precedenza nei porti albanesi in occasione del primo grande esodo migratorio verso le coste italiane. Non a caso si sentirà più di qualcuno lamentarsi di fronte alle prime ostilità: "Ci trattano come gli albanesi". Già, perché ben presto la festa - con i grandi spuntini sul ponte a base di pesce, maialino e ravioli, a seconda della provenienza del gruppo - lascia il posto alle prime tensioni.
La nave è ormai nel golfo di Napoli - dopo la solita interminabile e disagiatissima traversata - ma viene bloccata in rada. Che succede? È lo stesso responsabile della Questura di Cagliari in viaggio con gli agenti per controllare i tifosi - a raccontarlo: la Prefettura di Napoli non vuole nessuno in giro per la città, tutti i viaggiatori vanno raccolti negli autobus e condotti sotto stretta sorveglianza direttamente allo stadio. Il che non evita - dopo altre ore di attesa - che una sassaiola da parte di alcuni ultras napoletani (storicamente rivali di quelli cagliaritani) sfondi i vetri degli autobus, ferendo più d'uno e seminando il panico tra i viaggiatori, tra i quali numerose famiglie.
Il film si dipana attraverso le storie individuali di questi viaggiatori. C'è l'edicolante, ottimista fino all'ultimo, che immagina già le tante serate con gli amici a festeggiare. C'è la casalinga che ha voluto a ogni costo partecipare col marito, attraversando in serie tutte le difficoltà, dall'acquisto del biglietto della partita dopo una fila di ore alla fatica del viaggio e ora alla paura della violenza: "Mi sono gettata sotto i sedili dell'autobus, ero terrorizzata". Ci sono gli ultras, in verità alquanto "moderati", che spiegano la tecnica per non farsi mettere allangolo quando scoppiano gli incidenti. E c'è soprattutto il portabandiera, anzi il portastriscione, che meriterebbe probabilmente un film a parte.
Il protagonista è un giovane disoccupato di Seui, uno dei tanti paesi poveri e isolati al centro della Sardegna. È un tifoso appassionato ma non può pagarsi il viaggio. Sono i suoi compaesani a dargli una mano: gli pagheranno il biglietto e la trasferta se porterà lo striscione di 30 chili di peso del Cagliari club di Seui allo stadio. E lui è ben felice di quellincarico che assolverà fino all'ultimo con determinazione. Lo striscione è ripreso dalle TV sul punto più alto della nave, poi sulle gradinate dello stadio. Ma all'improvviso, nell'intervallo della partita, con un blitz un gruppo di ultras locali lo staccano, lo sfregiano e lo gettano via. Nel tentativo di recupero, il giovane viene fermato e manganellato dalla polizia, che ora affronta a muso duro tutta la curva. Finirà in infermeria e lo striscione andrà perduto. Come il Cagliari, mai in partita, che alla fine soccomberà per 3 a 1. Epilogo.
Nella perdita dello striscione non c'è l'insopportabile retorica per i simboli dell'ideologia ultrà, ma soprattutto un danno economico. "Ha un costo di circa 900 mila lire che non potrei mai restituire", fa sapere affranto il nostro eroe. Ma la solidarietà del paese si replica. Nessuno gli chiederà conto della perdita, anzi sarà accolto a Seui con affetto e riconoscenza. Un altro striscione ancora più grande campeggia ora accanto a un nuraghe, nella campagna. Con affetto e riconoscenza sono accolti anche i tifosi al ritorno al porto di Cagliari. Una vera e propria folla è sulle banchine ad applaudirli e salutarli. C'è anche Gigi Riva, venuto a salutare il figlio-tifoso. Gli sconfitti, increduli, tornano da vincitori, i pianti lentamente si trasformano in sorrisi. Ci voleva un film di tre amanti del cinema e del calcio per raccontarlo. Per chi non potrà vederlo sul grande schermo, è già pronto il DVD.
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