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CHALLENGERS
TRIANGOLI
FRA PATHOS
E RACCHETTE

di ANDREA ALOI

A tennis si gioca in due o in quattro, è sport simmetrico, di faccia a faccia, rispecchiamenti. Con Luca Guadagnino a tennis si gioca in tre e nel sostenere l’inedita regola coi 131 minuti di “Challengers” - una labirintica storia disegnata sui baldi amici d’infanzia Patrick e Art, diventati duellanti in campo e ben oltre perché incantati dalla bellissima Tashi - il regista palermitano-cosmopolita alza la posta autoriale del suo cinema sentimentalmente “estremo”. Dove all’apice stanno lo sguardo nudo e crudo e a un tempo levigato sulle contaminazioni tra amore e potere, l’inarginabile desiderio, le struggenti complicazioni del discorso amoroso e qui pensiamo a “Chiamami col tuo nome”. Tornato a girare negli Usa, dopo il cannibalico “Bones and all” (solo alcune scene sono state ricostruite a Cinecittà), Guadagnino si riconferma non incasellabile in un genere, quasi divertito stavolta nel “manovrare” lo spettatore lungo sentieri che poi conducono lontano dalle aspettative create, in un fuoco d’artificio di flashback, alcuni minimi, che non intaccano la tenuta del filo narrativo.



I challengers sono i tornei internazionali di seconda fascia, dove avanzando nel tabellone si aumenta il ranking e si viene così ammessi alle tappe più remunerative del circuito ATP, l’Association of Tennis Professionals. In uno di questi incontriamo il biondo Art Donaldson (Mike Faist), notevole racchetta in crisi di motivazioni e quindi di risultati. Lo guida e allena la compagna Tashi Duncan (Zendaya, smagliante), ex campionessa giovanile demolita da un micidiale infortunio al ginocchio quando militava nella squadra del college, Stanford per la cronaca, costosa/prestigiosa università californiana, dove pure Art è cresciuto sportivamente, al fianco del suo amico principe, il riccioluto Patrick Zweig (Josh O’Connor, visto recentemente ne “La chimera” di Alice Rohrwacher). Precisino Art, meno continuo Patrick, mai capace di approfittare appieno del suo talento esplosivo. Sono sulla trentina e li attende uno scontro fratricida in finale, l’occasione per una riconferma o per una svolta. Li lega tutto, da ragazzini erano rimasti abbagliati da Tashi mentre giocava, bellezza assoluta e affondi a rete implacabili. Se l’erano “divisa” anni dopo in una pomiciata corsara a tre (e nulla più) in hotel durante un torneo; lei poi, ai tempi dell’università aveva scelto Patrick , ma si erano lasciati e Tashi si era accasata con Art, facendoci pure una bimba. Come si concluderanno la finale e gli amori?



Detto tutto, detto niente, la trama in sé è esile, perfino risaputa. Se non che “Challengers” suggerisce una certa qual corrente di attrazione non solo amicale tra Art e Patrick, semina indizi (svianti?) come la banana mangiata da Patrick durante un brealktime, un dialogo tra i due in sauna (luogo in cui non si va in giacca e cravatta), certe battute complici da giovani maschietti conquistadores diventate parole aspre ai primi accenni di maturità. Tashi oscilla tra loro, pare severa, fredda e che desideri al fianco un prototipo alpha del tennis, un vincente, forse per risarcirsi dopo aver dovuto interrompere la carriera. Ma è tenerissima, sensuale, un groviglio di freddezza e pathos. Guadagnino ha colto del tennis il momento vibrante e raro in cui tra i giocatori divisi dalla rete si incarna una relazione tessuta di scambi furenti, mosse e contromosse. Un sudato, muscolare, inveramento amoroso.



Per il resto, paiono inutili i raffronti con altri film sul tema ménages multipli. “Jules e Jim” a parte, il più attinente sarebbe “Partita a quattro” di Lubitsch, uscito nel ’33 poco prima della concreta applicazione nel cinema americano del “moralizzatore” codice Hays, che prevedibilmente avrebbe condannato al rogo la storia di una ragazza divisa tra due uomini e finita a sposarne un terzo. Abbastanza sterile anche avvicinare ”Challengers” a film che sul gioco del tennis fanno perno in qualche modo, da “Match point” di Woody Allen a “L’altro uomo”, un sublime Hitchcock del’51, protagonista un bravo tennista che nelle ultime scene giocherà una partita contro il tempo e un suo diabolico accusatore. Guadagnino ha girato un unicum, non usa il tennis come metafora della vita (e viceversa), ma porta la vita proprio dentro il tennis, li fonde. Evidentemente un assurdo, essendo il tennis geometria anzi goniometria, per la crucialità degli angoli e nessuna partita giocabile con la mente ingombra da ricordi, affetti, passioni. Un assurdo coinvolgente, dove del tennis rimane la drammatica volubilità dei momenti, dettati da crolli psicologici, affaticamento, tensioni sopraggiunte in corso di match.



Cinema per il cinema, facendo il totale, cinema montato e smontato, portato ai suoi confini espressivi. Non esente da qualche estetismo (di classe, comunque), curatissimo (il regista ha chiamato il suo amico Jonathan Anderson, il direttore creativo della casa di moda Loewe, per restituire un certo look da studenti ricchi), magnificamente governato. Guadagnino viene prodotto dalla Metro-Goldwin-Mayer e si è ormai costruito un’immagine internazionale, target non raggiunto da Sorrentino, nonostante i due film girati in inglese, “This must be the place" e “Youth-La giovinezza”. “Challengers”, peraltro ben accolto anche in Italia, viene a dare conferma. La maglietta sfoggiata dai protagonisti con su scritto I TOLD YA (te l’ho detto, te lo dicevo) spopola, scorrono a fiumi le spettegolate sulle scene sessualmente più cariche. E la ventottenne Zendaya, qui produttrice come pure Guadagnino, drena pubblico giovane: passata da gioiello delle sitcom targate Disney Channel all’universo Marvel con due pellicole su Spiderman, si è fatta apprezzare dalla critica nella serie tv HBO “Euphoria”. I buoni registi sanno cavare il meglio dagli attori e dei tre di “Challengers” il podio più alto lo merita Josh O’Connor, volto sdrucito e magnetico, tra sorrisi che conquistano, ammicchi e ire funeste. Questo film, come è capitato a Timothée Chalamet per “Chiamami col tuo nome”, lo lancerà ancora più alla grande.



Da encomiare soggetto e sceneggiatura di Justin Kuritzkes e le musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, potenti nel sottolineare i momenti di confronto emotivo senza invasioni nelle fasi di gioco, lì si ascoltano solo gli schiocchi delle palline e il silenzio. Distribuisce da noi Warner Bros.

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