di
ANDREA ALOI
“Kinds of Kindness”, ultimo parto del premiatissimo Yorghos Lanthimos, volenti o nolenti uno dei registi del momento dopo l’ennesimo successo con “Povere creature!”, squaderna in due ore e tre quarti un campionario completo di sottomissioni, plagi, amputazioni auto-inflitte, delitti, doppi inquietanti, abnormità divenute norma in un’umanità senza orizzonti subordinata a pulsioni elementari. Per chi conosce il primo Lanthimos, quello di “Dogtooth” e “Alps”, tra reclusioni intrafamiliari e corpi vivi surrogati di defunti, è un ambiente mentale noto e che, pure in quest’opera cigolante e dal sapore incompiuto/inespresso, si mantiene stimolante nella sua radicalità “corporale”, da ultima passeggiata post-apocalittica.
Per tutti gii altri paganti biglietto, immaginabilmente la maggioranza, attirati dall'altro Lanthimos, quello appunto di “Povere creature!” e “La favorita”, due film assai gradevoli al palato medio - uno di bizzarra, sapida demolizione del Maschio, l’altro una ricca storia di ambizioni femminili alla corte settecentesca dell’inglese regina Anna - “Kinds of Kindness” sarà una delusione, con annesso sconcerto e discreta incazzatura. I più avvertiti coglieranno nell’uscita a spron battuto e in molte copie dopo il giro a Cannes un’operazione tra il commerciale e il “must do”: Lanthimos tira, si sfrutti l’onda, in squadra ci sono ancora Emma Stone e Wilem Dafoe, qui ci si diverte. Non per niente è stato girato (a New Orleans) quando “Povere creature!” era ancora in postproduzione.
Il titolo significa “Tipi di gentilezza”, ironicamente spiazzante per un film al cui confronto il recente “Another End" di Piero Messina (in una metropoli piovigginosa prospera la Aeterna, clinica dove, a pagamento, si impiantano in ospiti bisognosi i ricordi di gente trapassata, creando così avatar mentali a fini consolatori) sembra roba da oratorio. Il ritorno alla sceneggiatura, insieme al regista, di Efthymis Filippou, sua fedele spalla in scrittura dagli esordi fino a “Il sacrifico del cervo sacro”, succoso psyco-thriller con Colin Farrell e il satanico Barry Keoghan, dice molto sull’impianto ambizioso di “Kinds of Kindness”. Diviso in tre parti, tre mediometraggi recitati dagli stessi attori, non è raccontabile fedelmente, tale è la congerie di suggestioni e viluppi psicotici dell’imagerie di Lanthimos e Philippou, che si impegnano a giostrare i personaggi fino agli estremi della rappresentabilità. E non parliamo del sesso a mucchio selvaggio.
Nella prima parte Raymond (Defoe) è un padrone onnipotente che alza la posta delle richieste più assurde a Robert (Jesse Plemons, visto di recente in “Civil War”), un “servo” ben stipendiato a patto che si lasci condizionare nel modo di vivere, abitare, vestire, amare la compagna Sara (Hong Chau), alla quale è vietato figliare. Raymond è Diavolo ora mellifluo ora severo proprietario, letteralmente, di Robert, della sua anima, del suo essere. Gli regala preziose memorabilia sportive, tipo una racchetta rotta in campo dal bizzoso McEnroe, ma è pronto a lasciarlo col culo per terra se disobbedisce. Inizia a dipanarsi la figura di R.M.F, barbuto e panciuto uomo qualunque, destinato da Raymond alla morte violenta per mano di Robert e che tornerà nell’ultimo “episodio”.
L’omicidio non è un capriccio, bensì un dovere qualsiasi per questo Padrone simboleggiante il Lavoro, divenuto alienazione totale, spaesamento da se stessi. Stessa sorte di burattino umano tocca a Rita (Emma Stone). A questo punto, lo spettatore medio, nonostante le grazie di Vivian (Margaret Qualley), giovane fidanzata di Raymond, si chiede - tra un’ellissi narrativa e un accumulo di azioni insensate - quando inizierà il film. Lo stesso spettatore un’ora dopo guardando l’orologio con una certa apprensione, si domanderà: “Ma quando finisce?”.
Secondo atto, tema: l’Amore. Svolgimento: Daniel (Plemons) è un poliziotto abbastanza ciolla innamorato della moglie Liz (Emma Stone), con la quale indulge a scopatine in compagnia del collega Neil (Mamoudou Athie) e consorte (Martha, Margaret Qualley). La moglie si perde in un’isola deserta durante una missione scientifica. La salvano e torna a casa però è un clone. Daniel dà fuori di matto, poi sgama e la convince a estirparsi il fegato in nome del loro amore. La pseudo Liz, roboticamente fessa, esegue, il marito riabbraccia la vera Liz. Evviva.
L’ultimo blitz di Lanthimos nei rimasugli umani di un terzo millennio americano di belle magioni nel verde e tinelli pieni di comfort da cui qualsiasi persona di senno fuggirebbe, dovesse anche finire a mangiare pane e cipolla, è dedicato alla Fede. Intesa come credo, qui declinato nelle vicende di una setta per puri di spirito, dove comunque il primo sacerdote Omi (Dafoe) non si lascia sfuggire occasione di calare le mutande con gli accoliti Andrew (Plemons, in abiti di fluttuante lino molto new age) ed Emily (Stone, fragile, nevrile), marito e moglie, ma se il guru chiede si risponde “presenti!”. La comunità è ampia, devota a un culto della purezza collegato alla ricerca e attesa di una Regina Virginum dal tocco taumaturgico. A Margaret Qualley il compito di sdoppiarsi nelle gemelle Ruth e Rebecca, una è l’Eletta, se ne gioverà il pingue R.M.F, passando grazie a lei dall’obitorio a cliente in un chiosco di hamburger. Ketchup sulla camicia cifrata e sipario. La setta di Omi sa di falso lontano un miglio, come la mettiamo col miracolo della resurrezione?
“Kinds of Kindness” è una distopica enciclopedia dei poteri più annichilenti, la prova confusamente irrisolta di un talento stavolta punitivo, con diverse strizzatine d’occhio alla Bella Baxter di “Povere Creature!”. Un film che fatica a essere tale: il volenteroso spettatore avrebbe magari l’intenzione di sospendere l’incredulità e godersi il trip, ma per essere cinematograficamente increduli e quindi immersi nelle immagini, serve qualcosa di cinematograficamente credibile. E non è il caso di “Kinds of Kindness”, non del tutto, almeno. Diamo atto a Lanthimos di saper spremere i corpi attoriali che ha sottomano, a partire da Emma Stone - ancora tra i produttori dopo “Povere Creature!” - e di aver tentato di spostare in avanti i confini della sua crudele, implacabile decostruzione del reale, non ricorrendo a protesi o innesti tecnologici, come succede in “Titane” di Julia Ducorneau alla vendicativa Alexia, oppure a mutazioni horror, vedi “La mosca” di Cronenberg.
Lanthimos si fa bastare e avanzare gli umani nudi e crudi e normali. Non c’è più bisogno di valicare frontiere, non c’è un perturbante che nasce da un contesto quotidiano e familiare che si trasforma, atterrendoci. Il perturbante è dentro di noi, di serie, non un optional per le grandi occasioni della paura. O un malefico innesto di baccelloni alieni come nell’ “Invasione degli ultracorpi” di Don Siegel.
Il film è vietato da noi ai minori di 14 anni, negli Usa di anni ne servono 17.
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