di
ANDREA ALOI
Non aspettiamoci un’estate come la scorsa, con pezzi grossi alla “Barbie” e “Oppenheimer”, ma qualche buona uscita - come accade da qualche tempo in una stagione non più negletta cinematograficamente - è prevista. Tra i film più attrattivi, “The Gray Man” di Anthony e Joe Russo con Ryan Gosling ex agente Cia, “Bullett Train” di David Leitch che sfodererà Brad Pitt nelle vesti di un killer alle prese con avversari micidiali sullo Shinkansen giapponese, il treno più veloce del mondo, e per gli amanti del genere muscolar-fantasy “Thor: love and thunder” del brillantissimo Taika Waititi, Oscar alla sceneggiatura per “Jojo Rabbit”. Nel frattempo si possono gustare alcuni scampoli di fine stagione davvero notevoli. Su tutti “Il caso Goldman” del cinquantasettenne francese Cédric Kahn, un legal-thriller anomalo, dentro il genere per le classiche schermaglie tra accusa e difesa, ma ben oltre per lo spessore di una storia anni Settanta dal potente impatto politico ed emozionale, quella di Pierre Goldman.
Ebreo figlio di genitori polacchi poi separati, lionese classe ’44, anticapitalista militante e renitente alla leva, dopo qualche trascorso guerrigliero in Venezuela è accusato tra il ’69 e il ‘70 di quattro rapine a mano armata a Parigi con una banda che di politico aveva nulla. Abbastanza scompensato psichicamente (lo avevano “curato” con gli elettroshock), confessa la sua partecipazione alle rapine, ma nega recisamente di aver freddato a colpi di rivoltella, in quella del 19 dicembre del ’69, due farmaciste e di aver gravemente ferito durante una colluttazione un poliziotto in borghese, che cercava di bloccarne la fuga. Condannato all’ergastolo nel ’74, torna a processo nel ’76 ad Amiens. E qui il regista alza il sipario.
Goldman (Arieh Worthalter, premio César per questo film) fa arrabbiare il suo pur paziente avvocato Georges Kiejman (Arthur Harari), che ha preso a cuore il caso perché ebreo come Pierre. Lo interrompe, pretende, ergendosi a dignitosa e a tratti sprezzante voce della verità, di difendersi con la sola forza delle sue argomentazioni, suscitando le proteste di una parte del pubblico e gli applausi di una claque militante, dove si distingue Régis Debray, guerrigliero con Che Guevara, intellettuale teorizzatore dei “fuochi rivoluzionari” che avrebbero dovuto incendiare tutto il Sudamerica. “Non sono una persona capace di uccidere due donne disarmate”, “Questo è un processo politico, avete già scritto la sentenza”, “La polizia è fascista e terrorista”, “No, il nome del vero assassino delle farmaciste non lo faccio, so chi è, ma non sono una spia, è un impegno che ho preso con me stesso”. E giù anche insulti all’agente Quinet (Paul Jeanson) intento a raccontare al giudice presidente (Stéphan Guérin-Tillié), all’avvocato generale dello Stato (Aurélien Chaussade) e al procuratore (Nicolas Briançon) in che modo si è svolta la colluttazione: “Sì, è lui”, Quinet lo aveva già riconosciuto in un confronto all’americana, che però in questo nuovo processo traballa un po’ e suscita dubbi.
Emergono contraddizioni nelle deposizioni dei testimoni, ci si commuove ascoltando Christiane (Chloé Lecerf), la compagna antillana di Pierre e il padre Alter (Jerzy Radziwiłowicz), fuggito in Francia, eroe della resistenza francese. Nel processo le radici ebraiche dell’imputato e i segni di un passato di tormenti sono rievocati con grande sensibilità dall’avvocato Kiejman. “Volevo essere un guerriero ebreo”, dice Goldman, ormai simbolo di lotta contro l’autoritarismo e la repressione politica, un caso, appunto, nella Francia di quegli anni: difficile, in occasioni simili, il lavoro della giustizia. Il tratteggio del momento sociale e storico è efficace, ma a far volare il film oltre il genere è il cast, inteso non solo come protagonisti ma nell’insieme delle figure, pubblico, giuria popolare, testimoni. Davvero eccezionale.
Non c’è un attore, dalla fidanzata ai magistrati, che non sia vicino alla perfezione, con una resa drammaturgica di notevole impatto, asciutta e avvincente. Un cinema di parola e di volti, di atmosfera, in cui un’arringa, un’espressione dolente, un momento del Goldman furioso sono perfette pennellate di un quadro riuscito. E tanto merito hanno i costumi di Alice Cambourmac, bravissima, insieme agli sceneggiatori, lo stesso Cédric Kahn e Nathalie Hertzberg.
“Il caso Goldman” richiama nettamente le vicende del nostro Cesare Battisti, membro dei Proletari Armati per il Comunismo e condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi commessi tra il’78 e il ‘79. Latitante in Francia, Messico e Brasile, autore di romanzi giallo-neri, circonfuso da un’aura di perseguitato, si era sempre dichiarato innocente e contro la sua estradizione si erano mobilitati non pochi intellò della estrema gauche francese (tra loro la scrittrice Fred Vargas) e nostrana. Nel 2019 Battisti, arrestato in Bolivia e quindi assicurato alla giustizia italiana, avrebbe confessato le proprie responsabilità negli omicidi, aggiungendo: "Mai stato vittima di ingiustizie. Ho preso in giro tutti quelli che mi hanno aiutato. Ad alcuni di loro non c'è stato neanche bisogno di mentire”. Attualmente sta scontando l’ergastolo.
Di un’altra pasta umana, si direbbe, era Pierre Goldman. Al processo di Amiens, informano i titoli di coda, sarà assolto dall’accusa di duplice omicidio e presto rimesso in libertà avendo già passato sei anni in carcere, dove aveva scritto un’autobiografia, “Memorie oscure di un ebreo polacco nato in Francia” (in Italia pubblicato da Bompiani), su “istigazione” del grande Jean Genet, moderno maudit delle lettere francesi. Il 20 settembre del ’79 Pierre viene ucciso a Parigi. Un delitto rivendicato da un gruppo di estremisti di destra, ma al riguardo permangono ancora oggi grossi dubbi.
Passato l’anno scorso alla Quinzaine des Cinéastes a Cannes, “Il caso Goldman” sfiora le due ore, se ne vedrebbero altrettante. Distribuisce Movie Inspired.
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