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DANNATI
IN UN MANIPOLO
CONTROAMERICA
DI MINERVINI

di ANDREA ALOI

Un regista personalissimo, incapace di compromessi, fedele a una poetica realista e a un metodo di cinema in progress che coinvolge attori e troupe. Il marchigiano Roberto Minervini, 54 anni, da tempo attivo negli Stati Uniti con docufiction di cruda potenza, da “The Louisiana (The Other Side)” a “Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When the World's on Fire?)”, esordisce nella fiction pura e ambienta una storia di normale ferocia bellica nel 1862, anno secondo della Guerra Civile americana. “I dannati”, 89 intensi minuti di pedinamento al seguito di una compagnia di soldati nordisti volontari spediti nei territori occidentali a pattugliare ed esplorare le truppe confederate, offre con uno sguardo quasi contemplativo, alla Malick, un caleidoscopio di umanità portata ai limiti dalle contingenze di eventi estremi ma usuali in tempo di guerra: sparare ad altri uomini, sopravvivere, fare i conti con se stessi, coi motivi di una scelta così pericolosa.



Il film è stato girato in Montana, seguendo l’ordine cronologico degli eventi, una modalità imprescindibile perché Minervini ha costruito le vicende del drappello di unionisti senza un copione preciso, discutendone con gli attori, da Tim Carlson, che interpreta un sergente di lungo corso e già aveva lavorato col regista nel doc “Stop the Pounding Heart”, a Jeremiah Knupp, nei panni di un ricognitore dai capelli rossi, aderente a un credo religioso che ripudia la guerra e però andato ad arruolarsi per dare manforte alla causa della lotta allo schiavismo e non restare al di fuori di una Storia che coinvolge tanti suoi consimili. Tra gli interlocutori privilegiati del regista nel farsi quotidiano del film, la montatrice belga Marie-Hélène Dozo, storica collaboratrice dei fratelli Dardenne, ciò che dice molto di un ritmo narrativo non tambureggiante eppure incollato, “dentro” alle cose.



Un accampamento da costruire, i turni di guardia, le perlustrazioni, le parole preoccupate attorno al fuoco e un senso di gelo, di precarietà. Non c’è militare nel drappello di nordisti che nell’intimo non ripudi la guerra, coltivi dubbi, racconti di sogni per un prossimo futuro, tranne i due giovani figli (peraltro quelli veri) del sergente, Noah e Judah Carlson, oscillanti tra nuda paura e fascino dei nuovi fucili in grado di sparare sei colpi, ben più letali dei moschetti Springfield a colpo unico. E siccome è guerra, parlano anche le pallottole, gli agguati ad opera di un nemico che poco o nulla viene mostrato, a parte l’incontro di uno scout (René W. Solomon) con una pattuglia di sudisti a cavallo, che lo ignora. C’è battaglia e un albero vicino dietro al quale rifugiarsi può salvare la vita. Si viene recisi come grano da una falce, si cade colpiti come le pipe di gesso ai tirassegno (cfr “Casse-pipe” di Céline), ci si aggira per l’accampamento cosparso di cadaveri: una sorpresa del nemico ben riuscita, l’atmosfera di attesa da “Deserto dei tartari” di Buzzati è stata lacerata. Solo un cavallo legato alla staccionata scalpita e nitrisce, folle di terrore.



Insieme a una notevole economia di mezzi, capace, pur schierando appena qualche decina di elementi, di restituire il senso profondo dello scontro a fuoco, dei gesti di coraggio, della ottusa salvifica necessità di puntare e sparare, si viene impressionati da un gioco di luce naturale, brume, grigiori delle albe (un plauso alla fotografia di Carlos Alfonso Corral, autore pure delle musiche) che richiamano “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi. Brughiere, crepitio dei colpi, nuovi strumenti di morte in azione, nel film di Olmi il falconetto, pezzo d’artiglieria che - siamo nella terza decade del Cinquecento - condanna a morte Giovanni delle Bande Nere, capitano di ventura al servizio del Papa contro gli imperiali di Carlo V, nei “Dannati” il fucile a ripetizione. Le parole poco alla volta si fanno inutili, mentre il film, maturando splendidamente a fuoco lento, disegna l’ineluttabilità di un destino sigillato nell’immagine di due ricognitori (René W. Solomon e Jeremiah Knupp) lontani dai compagni, persi in un bosco di infinita bellezza ovattato dalla neve. Sollevano il volto ai fiocchi, sorridono. Hanno abbassato per sempre le armi.



“I dannati”, una coproduzione italo-belga con Rai Cinema e distribuita da Lucky Red, è stato premiato all’ultimo Cannes come migliore regia nella sezione Un Certain Regard. E sempre a Cannes Minervini ha presentato alla selezione ufficiale “Stop the Pounding Heart” nel 2013 e “The Louisiana (The Other Side)” due anni dopo, mentre nel 2018 è stato apprezzato a Venezia “Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When the World's on Fire?), un film che parte dalle violenze dell’estate 2016 nella comunità afroamericana di Baton Rouge in Louisiana e punta deciso sul razzismo come peste americana. Un altro capitolo della contro-storia degli Usa, motivo dominante nel rigoroso cinema di Minervini.

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