Arte e politica
libertà
va cercando
La censura, drammi e farse
Una recensione di
FABIO ZANCHI
Arte e politica si guardano in cagnesco. Da sempre, e a ogni latitudine. Certo, non mancano periodi storici in cui i rapporti volgono al sereno, soprattutto quando l’arte è celebrativa del potere. Ma le tensioni sopravvivono, sotto sotto. E il più delle volte vanno in aceto. L’effetto non sempre è tragico, fortunatamente. Anzi spesso vanno in scena, in nome della censura, episodi esilaranti.
Come dimenticare, per esempio, quando Silvio Berlusconi da presidente del Consiglio, fece coprire il seno della “Verità svelata dal tempo” del Tiepolo, dopo averla fatta collocare nella Sala Stampa di Palazzo Chigi? Il suo portavoce Paolo Bonaiuti fu costretto a spiegare che l’intervento era stato deciso in quanto la visione del capezzolo, inquadrato dai telegionali tutte le volte che c’era una conferenza stampa, si temeva “potesse urtare la suscettibilità di qualche spettatore”.
Un altro esempio significativo viene dagli Stati Uniti. Nell’agosto del 1949 il senatore repubblicano del Missouri George Dondero, parlando al Congresso, illustrò senza mezzi termini la propria concezione artistica: “Il Cubismo – disse – mira a distruggere attraverso il disordine progettato; Il Futurismo mira a distruggere attraverso il mito della macchina; il Dadaismo mira a distruggere attraverso il ridicolo; l’Espressionismo mira a distruggere scimmiottando il primitivo e il folle; l’Astrattismo (…) suscitando accessi di follia; il Surrealismo (…) negando la ragione”. Conclusione: “Tutti questi “ismi” sono di origine straniera e non dovrebbero davvero trovare posto nell’arte americana”.
"Come la politica condiziona l'arte"
Demetrio Paparoni
Ponte alle grazie edizioni
euro 24
In Italia, il segretario del Pci Palmiro Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, su Rinascita nel 1947 definì “scarabocchi, orrori e scemenze” le opere esposte alla Prima mostra d’arte contemporanea a Bologna. “Una raccolta di cose mostruose” che secondo Togliatti avrebbe dovuto indurre le “brave persone” a fare come il “ragazzino della novella di Andersen: dite ch’è nudo, il re; e che uno scarabocchio è uno scarabocchio”. A tale reprimenda, sempre su Rinascita, replicarono Guttuso, Mafai, Consagra, Leoncillo e Turcato auspicando che l’arte potesse fare tesoro delle esperienze delle avanguardie non gradite al fascismo.
Di episodi come questo nelle 478 pagine dell’ultimo suo libro Demetrio Paparoni, critico, saggista e curatore internazionale di mostre, ne racconta parecchi. Ne emerge, alla fine, un quadro a tratti desolante che accomuna un po’ tutto il mondo, in un percorso che parte da Napoleone per arrivare ai giorni nostri. Dall’Italia alla Germania nazista, dall’Unione Sovietica alla Cina contemporanea, dagli Stati Uniti alla Germania della Merkel. Il fatto è che il potere, comunque declinato, sotto forma di dittatura o di democrazia, non ama la critica. Mai. Neppure sotto forma di arte. E così il gene recessivo che alimenta la censura prospera, in ogni epoca e sotto ogni regime.
Attraverso un corposo e accurato lavoro di documentazione Paparoni accumula esempi su esempi. Alcuni dovremmo conoscerli bene, visto che sono accaduti in Italia. Comunque vale sempre la pena di rinfrescare la memoria. Come dimenticare che proprio in Italia nel 1950, in occasione delle celebrazioni dell’Anno santo, mentre si proibiva la rappresentazione del “Galileo” di Bertolt Brecht, a Firenze vennero tolti dalle strade addirittura i manifesti che rappresentavano la “Nascita di Venere” del Botticelli? Anni dopo, in Cina, nel 25° della morte di Andy Warhol, venne finalmente organizzata una mostra antologica in sua memoria. Era il 2013, a Shanghai e Pechino vennero esposte tutte le sue opere, tranne i dieci grandi ritratti di Mao. Che non erano per niente irrisori o critici. Il Ministero della Cultura così decise, senza ritenere di dare alcuna spiegazione. Un modo – annota Paparoni – per notificare agli americani che non sono disponibili a farsi colonizzare culturalmente. La censura come mezzo di comunicazione.
Muovendosi come un rabdomante Paparoni è riuscito anche a trovare episodi apparentemente minori. Uno riguarda la Chiesa (poteva mai mancare?) Nel 1965, in piena guerra del Vietnam, l’artista argentino Leon Ferrari realizzò un Cristo crocifisso a un bombardiere americano, armato di quattro bombe nere. Titolo dell’opera: La civilizaciòn occidental y cristiana. Esposta nel 2004 a Buenos Aires, l’allora cardinale Jorge Bergoglio la giudicò blasfema e la mostra venne censurata. Anni dopo, la stessa opera fu esposta nella chiesa di Sainte-Anne ad Arles. Era il 2015. Nel frattempo Bergoglio era diventato Papa. Acquisita, fra le altre di pertinenza papale, la prerogativa dell’infallibilità espresse il suo giudizio: “Ferrari è uno scultore bravo e creativo. Il suo lavoro rappresenta una critica al cristianesimo alleato con l’imperialismo”.
Uno degli esiti della permanenza di un diffuso atteggiamento censorio è l’affermarsi del cosiddetto pensiero politicamente corretto. Quello che ha indotto la casa editrice britannica Puffin a ripubblicare le opere di Roald Dahl emendate di quelle parole ritenute offensive, discriminatorie o, appunto, politicamente scorrette. O che nel 2011 indussero Alan Gribben, professore alla Auburn University di Montgomery, Alabama, a rieditare “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain sostituendo il termine “negro” con la parola “schiavo”, allo scopo di far rientrare il libro nelle scuole americane.
L’arte e la letteratura sono le cartine di tornasole che rivelano il grado di civiltà di un Paese.
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