Corte costituzionale
dal silenzio
alla glasnost
Democrazia e diritti
storia di un'evoluzione
Una recensione di
ROBERTO ROSCANI
Quel Palazzo, proprio davanti all’ingresso “regale” del Quirinale (sede di papi e di re, prima che di presidenti) con quell’affaccio che guarda le bellissime sculture dei Dioscuri, non sono in molti a conoscerlo. È il palazzo settecentesco della Consulta e il nome, che si riferiva ad un antico organismo ecclesiastico, è diventato il modo - improprio - in cui molti chiamano la Corte Costituzionale, che è lì dal 1955.
La Corte è un pezzo centrale delle nostre istituzioni, eppure ci vollero quasi dieci anni dal varo della Carta prima che iniziasse a lavorare (la prima seduta fu nel 1956): un ritardo non casuale. Il segno, in realtà, che una istituzione di controllo che avesse maggiori poteri del Parlamento e del Presidente nel giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi non era così facilmente digeribile da parte del sistema politico italiano.
Un libro sulla Corte potrebbe sembrare destinato ad un pubblico di “addetti ai lavori”, ma questo “Storie di diritti e di democrazia. La corte costituzionale nella società”, firmato da Donatella Stasio e da Giuliano Amato (Feltrinelli 2023 euro 22), è invece destinato a tutti. A tutti quelli, almeno, che dovrebbero nutrire attenzione e amore per le due parole: diritti e democrazia.
"Storie di diritti e di democrazia.
La Corte Costituzionale
nella società"
Donatella Stasio
e Giuliano Amato
Feltrinelli editore
euro 22
Non è una storia della Corte, bensì il racconto di una esperienza durata 5 anni che la ha notevolmente cambiata. Una esperienza di comunicazione – Donatella Stasio, una giornalista molto brava, per anni al Sole 24 ore, in quel periodo fu chiamata a curarne appunto la comunicazione –, ma se fosse solo questo sarebbe un interessante “case history” per i professionisti del settore. No, si tratta di una esperienza di apertura, di scambio, di “trasformazione” verrebbe quasi da dire, infine di “viaggio”. Perché il cuore dei cinque anni sono stati due viaggi intrapresi dalla Corte, prima nelle scuole e poi nelle carceri. E la parola viaggio va intesa anche letteralmente: per anni i giudici costituzionali hanno incontrato migliaia di ragazzi nelle aule, e poi di detenuti nelle carceri. Non per fare delle lezioni (che certo c’erano) ma per far comprendere il proprio lavoro e per comprendere i problemi di quelle comunità, i giovani in formazione da una parte e dall’altra i detenuti che avevano un rapporto di “corpo a corpo” con la legge.
Il libro intreccia in realtà due racconti paralleli. Quello di Donatella Stasio e quello di Giuliano Amato (riconoscibile non solo per lo stile, che qui è molto meno da “dottor sottile” di quanto non appaia in altre circostanze, ma anche graficamente perché il suo testo è sempre tra virgolette). La giornalista racconta gli intenti, i problemi, le non poche difficoltà superate per realizzare questi viaggi e il giurista - in quella fase giudice costituzionale e poi presidente della Corte - interviene nella sostanza giuridica delle decisioni e dei casi aperti davanti alla Corte. Eppure anche Amato lascia spazio all’emozione di quegli incontri. Il racconto permette di ricostruire anche alcune delle sentenze più complesse e d’impatto prese dall'istituzione, per esempio quelle sul suicidio assistito o sull’impossibilità per i detenuti in “regime ostativo” di accedere ai benefici di legge concessi agli altri carcerati.
Probabilmente, ancora pochi conoscono il lavoro di questo organismo che giudica le leggi e non i singoli casi individuali e al quale non accedono le persone ma i magistrati (e qui è una delle specificità se non dei limiti maggiori, visto che non sono i cittadini a poter sollevare il dubbio di costituzionalità di una legge ma solo i giudici chiamati a utilizzare quelle norme). Eppure la Corte interviene su questioni vitali e vicine. Un esempio, del passato più lontano: due volte i giudici costituzionali furono chiamati a decidere sulle regole per le quali solo l’adulterio della donna era da considerare un reato. Una prima volta decisero per il sì, una seconda – anni dopo – invece abolirono questa straordinaria “anomalia” nei diritti delle persone differenziati per genere, che ai nostri occhi appare mostruosa.
La Corte alla fin fine non è fuori dalla storia e dalle sensibilità culturali. Verrebbe da dire però che in passato ci arrivasse tardi, ad allinearsi al senso comune dei cittadini. Nei casi raccontati da Stasio e Amato invece l’impressione è inversa, almeno se si pensa alla sensibilità dei nostri legislatori: pensiamo appunto sia alla vicenda del diritto a decidere sulla propria morte, o all’ergastolo ostativo, ovvero a quel “fine pena mai” per il quale la Corte europea dei diritti umani ha censurato l’Italia. In tutti e due i casi la Corte ha chiuso la questione dando tempo al Parlamento per legiferare senza cancellare subito le norme, che pur giudica non aderenti alla Costituzione. Nel primo caso, il legislatore non ha agito e quindi la Corte è di nuovo intervenuta, reiterando la richiesta di intervento sul tema dell'eutanasia. In materia di ergastolo ostativo, invece, i giudici costituzionali aprirono una breccia con una prima sentenza che riconosceva il diritto dei detenuti in ergastolo ostativo a chiedere anche permessi premio. Indicarono poi il tempo di un anno al Parlamento per una definitiva riforma.
Questo è uno dei punti che più hanno fatto e faranno discutere: si è trattato di un atto di “scarso coraggio”, una operazione pilatesca? O invece del passaggio necessario (e rispettoso delle prerogative delle Camere) per “obbligare” il Parlamento ad affrontare problemi di equilibri tra diritti e politiche della giustizia? Ognuno potrà farsi la sua opinione. Anche se nel caso dell’ 'ergastolo ostativo' la decisione del governo Meloni – appena entrato in carica – è stata una sorta di imbroglio: il decreto approvato dall’esecutivo alla soglia della scadenza dell’ultimatum della Corte per affrontare il tema con nuove norme è stato presentato formalmente come una difesa dell’ergastolo ostativo, proprio il contrario dell’indicazione della Corte, che era quella di trovare un superamento che non intaccasse l’interesse della sicurezza del Paese davanti alla mafia e alla criminalità organizzata.
E qui, mi pare, vien fuori il punto politico più evidente: quanto la politica è pronta ad una interlocuzione e alla ricerca di un equilibrio con la Corte che abbia a cuore la tutela della Costituzione? Dico la politica e non soltanto la destra ora al governo, visto che le critiche alle decisioni della Corte sono venute (in forme certo diverse) da differenti forze politiche. Il problema è esploso in maniera drammatica in Israele, dove il governo delle destre ha cercato di ridurre fino ad azzerare i poteri della corte costituzionale di quel Paese. Il problema – in senso inverso – è emerso dopo la sentenza della Corte suprema americana sui temi dell’aborto e dei diritti delle donne.
Il libro ci fa scoprire un organismo complicato fin dalla sua composizione (cinque membri sono di nomina del Presidente della Repubblica, cinque del Parlamento e cinque delle magistrature), con molte storiche rigidità strutturali. Ma ci fa scoprire anche la voglia di una istituzione (che appariva a metà strada tra la sacralità e l’obsolescenza) di superare i vecchi confini. Di aprire un faccia a faccia con il Paese. E ci fa capire che questo - se è stato prima accettato poi approvato all’interno della Corte fino a diventare un impegno emotivamente entusiasmante per molti se non tutti i giudici costituzionali - , non altrettanto lo è stato da parte degli altri poteri di cui è fatto l’equilibrio istituzionale italiano.
Amato e Stasio richiamano in più occasioni quella spinta che – a seconda delle convenienze – ogni tanto viene fuori, quel desiderio di avere delle “istituzioni mute”. Come se solo al Parlamento spettasse di avere un rapporto diretto con il consenso e l’opinione dei cittadini, mentre ad altri organi spettasse di restare in silenzio e, come si dice nel caso della Corte, parlare solo con le sentenze (salvo poi vedersele contestare). È un grande tema democratico che va affrontato non nell’ottica dell’equilibrio dei poteri, del “check and balance” direbbero gli anglosassoni, ma in quella dell’interesse dei cittadini e della capacità del sistema di salvaguardare diritti e principi contro chi coltiva le paure.
Il volume ci fa guardare da dentro un processo avviato dalla Corte e continuato per un lustro col contributo di diversi presidenti e di un gran numero di giudici (pur nella differenza delle loro posizioni, che si manifestano anche nelle sentenze), raccontandoci anche del complicato lavoro sui social media che sono diventati - insieme al sito - un vero strumento di comunicazione, degli intralci e rischi di passi falsi quando la Corte deve esprimersi sui medesimi social e quando si sceglie un linguaggio di piena comprensibilità al posto del “giuridichese” in voga in passato.
Resta la domanda: come andrà a finire? Insomma: la Corte continuerà nel tempo su questa strada di apertura? E, di più, la politica riuscirà ad evitare il desiderio di controllarla più da vicino (a questo proposito viene ricordato che nel 1953 la Dc – eravamo in tempi di “legge truffa” – propose che le cinque nomine 'presidenziali' fossero decise dal Parlamento, e ci volle alla fine Moro per rinunciare a questo disegno)? Certo è che questi due interrogativi possono intrecciarsi in modo diverso.
Una prima risposta è che una Corte più “muta” darebbe meno fastidio e diventerebbe più sopportabile alla “brutta politica”. Una seconda è che invece solo il rapporto tra i cittadini e le loro domande e la Corte garantirà a questa stessa di essere percepita come un soggetto necessario. Non parlo di ricerca del consenso, ma di ricerca di una sintonia con i bisogni delle persone e il reale impatto delle leggi con la loro vita. E la Costituzione? Non era proprio questo il compito che i padri costituenti avevano immaginato per un organismo totalmente nuovo e democratico, un garante dalle tentazioni di “democratura”?
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