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Di Vittorio
il leader umile

Storia di 'Peppino'
e la sua vita difficile

Una recensione di
ROBERTO ROSCANI

(immagini dal gruppo facebook Giuseppe Di Vittorio)

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Gli anni dell'esilio, della clandestinità furono davvero duri per quella generazione di antifascisti e di comunisti che ebbero in sorte di attraversarla. Duri perché certamente l'Hotel Lux di Mosca come le stamberghe di Marsiglia o Nizza non erano davvero delle case, neppure per chi era abituato a una vita parca e sempre in movimento.

Su quella generazione esilio e fuga pesarono molto prima di tutto da un punto di vista umano. Vecchi legami familiari e amori, coppie che avevano radici negli anni delle lotte in Italia non ressero a quell'impatto. Longo e Teresa Noce, Rita Montagnana e Palmiro Togliatti condivisero esilio e guerre, erano donne straordinarie e "uomini di ferro" ma le loro unioni si logorarono rapidamente in quelle tempeste. Ecco, c'è una storia che solo apparentemente è privata ma che in realtà mette insieme il ruolo maschile e quello femminile in quel mondo dei primi decenni del Novecento, il senso della militanza e insieme quello dei sentimenti che potrebbe essere un fertile terreno di indagine storica.





Ma c'è una eccezione e ce la racconta Antonio Del Giudice nel suo "Figlio della terra", in libreria dal primo marzo. Una eccezione o forse, nel personaggio che ne è al centro, ci sono molte eccezioni. Stiamo parlando di Giuseppe Di Vittorio, un vero protagonista amatissimo che ha attraversato le lotte bracciantili che hanno preceduto e seguito la Prima Guerra Mondiale, per arrivare poi - dopo la Liberazione - al ruolo di Segretario generale della CGIL, il sindacato che con lui tornò a vivere nell'Italia repubblicana e che riuscì a superare traumi e sconfitte (per prima quella della fine dell'unità tra le forze antifasciste che seguì la rottura del '47-48, poi quella che, dopo l'avvio della ricostruzione, fu imposta dal padronato italiano al sindacato nei primi anni Cinquanta) portando questa enorme forza ad essere uno dei fattori fondanti della democrazia come l'abbiamo conosciuta.


Figlio della terra.
La leggenda di Peppino Di Vittorio

di Antonio Del Giudice

Castelvecchi editore
euro 15

Antonio Del Giudice si è "imbattuto" in Peppino (lo chiamavano tutti così) Di Vittorio da ragazzo. Il primo ricordo è quello di un corteo funebre che passa sotto le sue finestre con le persiane serrate. La famiglia di chi narra era agli antipodi di quel mondo di braccianti un po' anarchici, un po' socialisti e alla fine confluiti, nella Puglia arsa dal sole, nel partito comunista. Eppure quella figura, i volti di chi lo piangeva, le lacrime e i fazzoletti rossi al collo lo colpiscono enormemente.

Anni dopo, mentre sarà all'inizio della sua vita di giornalista, si proporrà per ricordare la figura di Di Vittorio in un anniversario della morte. Sarà l'occasione per iniziare a studiare il personaggio, partendo da quello che sul giornale in cui scriveva (la Gazzetta del Mezzogiorno) era stato scritto per la morte nell'ormai lontano novembre del 1957, avvenuta a Lecco dopo interminabili giornate di incontri e comizi e in tempi davvero difficili anche per il rapporto tra Di Vittorio e Togliatti dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria, quando il segretario della CGIL si era schierato con gli insorti ed era stato duramente ripreso dal segretario del Pci.





A commemorare Di Vittorio sulla Gazzetta c'era anche una firma "stonata", quella di Cesare Rossi. Rossi era stato sindacalista rivoluzionario per poi diventare fascista e avere nel regime un ruolo di peso. Cosa raccontava Rossi? Una storia tenuta segreta, un incontro tra lui e Di Vittorio al Viminale (che allora era la sede del primo ministro e ministro degli interni Mussolini) avvenuto su richiesta di Di Vittorio che - allora parlamentare comunista - aveva da "chiedere un favore": voleva che la moglie Caroline e i due figli potessero raggiungerlo a Roma in sicurezza.

Si capiva dal racconto di Rossi quanto fosse costato a Di Vittorio varcare le porte del Viminale e come a decidere fossero stati insieme a lui i ras pugliesi del fascismo, i Caradonna, i di Crollalanza, alla fine convinti solo dal fatto che in ballo ci fosse una famiglia. Di Vittorio era già allora in quelle terre un leader amato e temuto dagli agrari, contro i quali aveva animato le lotte bracciantili. Quella di Cesare Rossi è solo una testimonianza, eppure nei faldoni della segreteria personale di Mussolini di tutta questa vicenda qualche traccia dovrebbe esser rimasta e sarebbe curioso rintracciarla, magari una M tracciata a matita su un appunto del gabinetto del Duce.





L'episodio non racconta di una vicinanza tra due uomini che venivano dal sindacalismo rivoluzionario (che pure nei primissimi anni del fascismo era una esperienza ben presente) e che nelle vecchie radici magari avevano condiviso lotte e pensieri. Testimonia piuttosto del peso che Di Vittorio dava alla sua famiglia, a sua moglie Carolina, al figlio Vindice nato in una notte di tregenda all'interno della Camera del Lavoro mentre i fascisti l'assaltavano e cercavano di abbatterne la porta e della figlia più grande Baldina, che all'epoca di anni ne aveva tre o quattro.

Il libro esplora questo rapporto e le mille traversie cui fu sottoposto tra fuga ed esilio in Francia, in Urss, in Spagna, sempre inseguiti dalle spie dell'Ovra e da una storia che in quegli anni era davvero implacabile.





Ne vien fuori il ritratto di un italiano molto speciale, di un uomo umilissimo che si era impegnato a studiare fin da ragazzo (non nelle scuole, perché in quelle la famiglia non si era potuta permettere di mandarlo, ma nelle notti al lume di candela), che condivideva col mondo dei braccianti pugliesi non una semplice voglia di riscatto ma una esistenziale necessità di cambiare le cose per sentirsi uomini. Il legame con la sua terra non lo ha mai fatto essere meno amato in tutta Italia e anche nel mondo.

È curioso come nel racconto appaiono fusi e simili il rapporto d'affetto con la moglie e i figli e quello nei confronti della terra. Stavolta parliamo letteralmente della terra, della necessità di vivere mettendo quotidianamente le mani sugli attrezzi agricoli e sporcandole col terreno, come da secoli avevano fatto i suoi conterranei. C'erano piccoli orti anche nelle povere case in affitto in Francia o in Spagna negli anni duri della guerra civile, come se Di Vittorio potesse dare il meglio di sé solo se le radici che lo legavano rimanevano ben salde con quelle immateriali degli affetti familiari. È qui - sembra dire questo ritratto affettuoso ed empatico che Del Giudice dedica a Peppino Di Vittorio - il seme più proficuo di questo straordinario politico e sindacalista italiano. Quando si costruiscono dei Pantheon civili, uomini come lui non possono e non devono mancare.




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