Il cuore di tenebra
del viaggiatore
Conquistare la lontananza
in un mondo sempre più fragile
Una recensione di
BRUNO MISERENDINO
Pensiamoci un po’. Quando decidiamo di fare un viaggio, valutiamo sempre tutte le conseguenze di questa esperienza meravigliosa che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi? Ovviamente no, partiamo perché ci spinge la voglia di evadere e di conoscere, annusare, vedere con i propri occhi luoghi che sono stati prima di tutto sogni, suggestioni, immagini e racconti di libri. E la maggior parte di noi, bisogna ammetterlo, decide di partire o no, e di andare in un posto anziché in un altro, a seconda delle possibilità economiche o del tempo a disposizione.
Altrimenti si resta a casa. Ma anche, o forse soprattutto, se si ama la natura e si scelgono luoghi belli e fragili, a volte non ci si rende conto delle conseguenze. Se vado molto lontano, dovrò prendere un aereo, magari navi, traghetti, poi macchine, autobus. Pretenderò di avere in posti esotici e poveri tutte le comodità che ho a casa, quindi sceglierò alberghi e resort con aria condizionata, servizi costosi, acqua minerale, vino, birra ecc. Tutte cose che pagherò, ma costose anche per l’ambiente. Esistono calcoli, ormai codificati da diversi anni, che spiegano il danno collaterale ambientale indotto dal turismo, persino quello consapevole.
In un volo aereo intercontinentale ogni passeggero provoca un’emissione di mezza tonnellata di anidride carbonica. Col biglietto pagherà la Carbon tax, istituita proprio per attutire l’impatto delle emissioni nocive garantendo fondi per tutte le misure che possano contrastarle, però il danno ci sarà in ogni caso. Insieme ai benefici economici, ovviamente. Che però sono in gran parte a favore delle compagnie aeree, marittime, dei trasporti e degli operatori del turismo e solo alla fine per i cittadini dei paesi che si visitano. Per l’ambiente il saldo sarà negativo. L’alternativa, ad esempio se si vuole andare oltreoceano, sarebbe fare come la giovane Greta, l’attivista per l’ambiente, che per parlare alle Nazioni Unite ha fatto la traversata in barca a vela. Ma non è una soluzione proponibile per il turismo di massa.
Dunque, restiamo a casa? Non è questa la via, però se leggiamo un bel libro scritto da Franco Brevini (“La conquista della lontananza”, Il Mulino) qualche indicazione ci verrà. L’autore, docente di letteratura italiana all’Università di Bergamo, collaboratore del “Corriere della Sera”, è un viaggiatore di lungo corso, lo è stato fin da bambino (“ancora oggi – scrive nelle prime pagine – se pronuncio la parola viaggio ad affiorar e è sempre lo stesso sentimento: la nostalgia della lontananza”), racconta sensazioni che ognuno di noi ha vissuto, quindi il suo libro non è un invito a restare a casa, ma un contributo alla doverosa consapevolezza di ciò che ha significato nella storia umana il viaggio, in tutte le sue declinazioni e nella sua ambivalenza.
La conquista della lontananza
di Franco Brevini
Il Mulino editore
euro 19
Scomodando Cartesio si potrebbe parafrasare il famoso “cogito ergo sum” in “viaggio, dunque sono”. E sono quello che sono perché ho viaggiato e altri, prima di me, nel corso dei millenni hanno viaggiato, esplorato, scoperto, migrato, conquistato, e anche depredato. Non c’è conoscenza umana che non abbia origine in un viaggio, basta pensare a Darwin, l’intera storia umana è il risultato di infiniti spostamenti, quindi il libro, che alterna ricordi personali ad analisi storica ed è condito di molti riferimenti letterari e scientifici, è una bella carrellata di donne e uomini che partendo per necessità, scelta o interesse hanno cambiato la loro vita e di conseguenza anche la nostra. A partire da Lucy, la nostra antenata africana, da cui tutti discendiamo. Perché, dicono gli studi, l’essere bipedi, quindi con la disposizione a camminare, migrare e mentalizzare aree sempre più vaste ha contribuito a sviluppare il cervello.
La conoscenza in generale è sempre stata connessa, fin dall’antichità, al superamento dei confini. Come dice un proverbio arabo, “chi vive vede molte cose, chi viaggia vede di più”. La stessa avventura di Ulisse, “quell’uomo dal multiforme ingegno”, va letta nel segno della conoscenza. Partito per fare una guerra e conquistare oro e gloria, ha combattuto, ucciso, assediato e distrutto una città, poi si è messo in viaggio per tornare, ma è quel lungo e incerto vagare, tra nostalgia e curiosità, quel conoscere terre allora sconosciute e lontane, popolate di lotofagi, maghe, sirene, ciclopi, che lo destina all’eternità, facendone l’emblema dell’uomo moderno. Per Strabone, ci ricorda Brevini, “la geografia era la madre della filosofia”, e diversi secoli dopo anche Emmanuel Kant mostrò di pensarla allo stesso modo. Lui viaggiò poco, ma era uno straordinario studioso del mappamondo. Friedrich Nietzsche, che si autodefiniva fugitivus errans, consegnò alla storia il famoso appello: “C’è ancora un altro mondo da scoprire – e più d’uno – Alle navi, filosofi”.
Ma poiché la storia non è una linea retta, nemmeno il viaggio –suggerisce il libro - è solo una meravigliosa conquista dell’anima e della mente. I grandi condottieri dell’antichità non erano turisti, e nemmeno i grandi navigatori. L’epoca delle grandi scoperte geografiche, tra la fine del Quattrocento e il Settecento, ha rivoluzionato il mondo e la sua economia, ha messo l’Europa al centro di tutto, ma dietro al termine viaggio quell’epoca ha condensato molte cose diverse: curiosità, scoperta, coraggio, avventura, interesse economico, colonizzazione, e quindi anche distruzione, rapina, sfruttamento. Se pensiamo ai grandi navigatori della storia, Colombo, Magellano, Vespucci, li vediamo come uomini straordinari e visionari, dotati di immenso coraggio e grandi capacità di comando, in grado di affrontare l’ignoto, con vascelli molto fragili, di fatto senza strumenti e senza carte.
Ma dietro queste figure superbe c’erano gli interessi economici delle grandi potenze di allora (prima Spagna e Portogallo, poi Olanda, Francia e Inghilterra). Provate a parlare di Cristoforo Colombo in una qualunque delle tante isole delle Antille scoperte dal grande genovese: scoprirete che ancora oggi quel nome evoca la fine della libertà, non l’inizio dell’evangelizzazione. I conquistadores portarono guerra e malattie, nelle terre scoperte la popolazione indigena si ridusse a meno della metà, imperi secolari furono rasi al suolo, tutte le ricchezze trafugate. Alla colonizzazione seguì la tratta degli schiavi: anche quello era un viaggio ma non divertente. Come quello dei migranti che vengono a morire sulle nostre coste. Ci sono voluti secoli perché l’Europa e l’Occidente elaborassero il senso di colpa per la storia grande e crudele del colonialismo, ma evidentemente qualche tassello non è stato ancora digerito. Ora il Sud del mondo presenta il conto.
Ecco perché bisogna sapere che ogni viaggiatore, per ricordare Conrad, ha il suo cuore di tenebra, il suo egoismo, la sua paura, il suo lato oscuro e si porta dietro l’eredità di una storia complicata. Brevini fa un elenco quasi enciclopedico dei molti tipi di viaggio e delle sue sfumature psicologiche, quelli della fede, che muovono milioni di persone, quelli letterari, quelli dei mercanti, degli studiosi, degli scienziati, dei musicisti (il bambino prodigio Mozart in Italia, ad esempio), quelli della diplomazia, degli esploratori, spiegando che molte delle figure si sovrappongono (vedi Marco Polo). Analizza le mode indotte dai viaggi, studia l’evoluzione del turismo, da quello d’elite a quello di massa. Ma legge il filo che lega questa storia: i viaggi insegnano l’alterità, fanno conoscere ciò che è diverso da noi, anche se l’Occidente ha spesso considerato barbari “chi ha costumi diversi dai nostri”. Il pianeta è plurale e questa pluralità bisognerebbe difenderla da omologazione e globalizzazione.
Di questa storia multiforme e ambivalente cominciata all’inizio dei tempi, il turismo di massa, quello che in fondo ci riguarda, è solo l’ultimo atto. Sembra il più innocente, e nelle intenzioni individuali lo è, ma riporta allo stesso conflitto, quello, già paventato da Karl Marx nell’analisi della produzione capitalistica, tra accrescimento e distruzione. “Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo – scriveva un secolo dopo il grande antropologo Levi Strauss in 'Tristi Tropici' – non è certo riuscita a produrle senza contropartita”. E infatti il turismo di massa, per essere consapevole – dice Brevini - dovrebbe rispondere ad alcune condizioni, perché paradossalmente proprio la sensibilità ambientale che è cresciuta negli ultimi decenni rischia di ritorcersi contro quel che resta dei paradisi naturali.
Per chi ama la natura, visitare una meravigliosa spiaggia corallina ai Tropici è una buona cosa ma l’effetto può essere deleterio. Scalare una grande parete sulle Alpi, in Patagonia, sull’Himalaya, è legittimo ma mi autorizza a utilizzare un compressore meccanico per sforacchiare la roccia? O a lasciare tonnellate di rifiuti per le spedizioni? Visitare Venezia per vederne le sue bellezze artistiche e architettoniche è una buona cosa, alterarne il fragile equilibrio con grandi navi e masse spropositate non lo è. Espropriare le popolazioni locali per costruire resort turistici nelle poche zone ancora incontaminate del mondo è una buona cosa? “Avendo l’accortezza di rispettare alcune condizioni elementari – conclude Brevini – si potrebbe avviare una riduzione dell’impatto del turismo… un viaggiatore etico che, consapevole della fragilità della natura , ne respinga il semplice valore d’uso, potrebbe additare una via d’uscita”. Non è un dibattito di oggi, e anzi qui il viaggio è ancora molto lungo. Forse illusorio, in un mondo che sembra autodistruggersi. Anche le ultime cose belle e lontane non sono eterne, andarci in punta di piedi, sembra suggerire il libro, potrebbe essere un buon inizio. Pensiamoci.
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