Confische
e Giustizia
quel confine
indecifrabile
Quando tutto si confonde
nella notte dell'Antimafia
Una recensione di
VINCENZO VASILE
Anche qui si parla di un viaggio. Di ritorno. Chi abbia fatto il giornalista a Palermo negli anni roventi di mafia e antimafia, e torni oggi a investigare sullo stato dell’arte, si trova spiazzato come un rimpatriato di lungo corso. Anzi: uno straniero in patria, deluso, nostalgico, arrabbiato. L’autore del bel libro “La notte dell’Antimafia” (Compagnia editoriale Aliberti €18,90) è Lucio Luca, da trent’anni a Repubblica, i primi passi proprio in quella redazione di frontiera. E chi scrive, nel decennio ancora precedente, quando iniziava a metà degli anni Settanta la sanguinosa decapitazione di polizia, carabinieri, magistratura, uomini di governo e di opposizione, aveva fatto lo stesso lavoro all’Unità.
Sangue e lutti ci hanno segnato, non solo professionalmente: magistrati, poliziotti, uomini di opposizione e di governo, le nostre icone antimafia sono incistate nelle lapidi funerarie. Tornando a Palermo, ormai negli anni Venti del secolo successivo, Luca ha scritto con una prosa che rende tutto il suo stupore polemico e dolente un “romanzo” sulle icone viventi dell’Antimafia (con l’iniziale maiuscola, come sarebbe appropriato per le istituzioni). Un’effimera vita, la loro. Abbagliante come un riflettore, smagliante come una meteora al primo impatto con l’atmosfera: ecco le interviste, le parate con autorità e famigliari di vittime, le conferenze altisonanti, i record palermitani di svelamenti e acquisizioni di patrimoni sporchi.
Passano anni di successi e trionfi. Un giorno un cronista di quelli più curiosi, anche se deontologicamente abbastanza “scorretto”, magari col dente avvelenato, insinua qualche dubbio. Un prefetto sbatte la porta, accusa gli apparati, ma non trova ascolto. Le Iene fanno qualcuno dei loro inseguimenti. Un giornale nazionale, Repubblica, che non ha ancora smontato la sua redazione e le sue pagine locali, getta fasci di luce sulla casta dell’Antimafia della “prevenzione”. Cambia il vento. E si sprofonda nella notte di “una storia italiana di potere, corruzione e giustizia negata”: trascrivo il sottotitolo della copertina, impresso sulla foto notturna di un volto oscurato da un’ombra nerissima, perché se questo è un romanzo è un romanzo nero. È una donna elegante, si vedono una chioma bianca dall’ottimo taglio, il filo di perle, il décolleté castigato e spartano delle occasioni istituzionali o delle sfilate di haute couture. Se è un romanzo, è un romanzo nero. Con la sua dark lady.
La notte dell'Antimafia
di Lucio Luca
Compagnia editoriale Aliberti
euro 18,90
È lei, la zarina di Palermo, la protagonista. Ha un nome e un cognome, che a dispetto delle regole del romanzo l’autore ha voluto mantenere. Probabilmente perché ormai sentenze passate in giudicato stanno a certificare che proprio la presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale, deputata a sequestrare e requisire le aziende mafiose, e ad assicurarne la corretta gestione durante la complessa procedura di accertamento e di acquisizione dei beni, è stata negli anni al centro di un sistema che spolpava anche aziende sane, le mandava in bancarotta, incassava milioni. Per dare vita – quello lo scopo, non più lo strumento? - a una ragnatela pasciuta dal danaro pubblico, di consulenti legali, professionisti, avvocati, commercialisti e contabili.
Anche qui nomi e cognomi. Arricchimenti sospetti colpiti da sequestri, amministrazioni “controllate” da amministratori incontrollati, scelti e fatti crescere come in serre lussureggianti – uffici con centinaia di dipendenti, lauti stipendi, compensi voluminosi - da chi dovrebbe esercitare, invece, i controlli di legalità. Insomma: dalla magistratura. E precisamente proprio dalla magistrata ritratta nella copertina del nostro libro. Personaggio al centro di tante microstorie paradossali e gravissime di aziende fatte fallire e incamerate o vampirizzate da chi doveva salvarle: una cupa vicenda di giustizia negata nella quale è sfociato ed è andato a sbattere l’unico movimento per una giustizia giusta che abbia avuto nel nostro paese una qualche base di massa, cioè il movimento antimafia.
Non vi rovino la lettura con dettagli, che a uno sfoglio distratto dei giornali sono probabilmente sfuggiti a chi ha letto della clamorosa apertura di questo scandaloso vaso di Pandora, per dire dell’altro protagonista-voce narrante di una vita parallela. Che si chiama Giafranco, ed è il figlio di un imprenditore vinicolo siciliano che a un certo punto lanciò i suoi prodotti con grande profitto e clamore nel mercato nazionale, etichette citate da sommelier e stampa specializzata, sulle tavole degli chef stellati. Ma fu poi accusato di essere in verità un mafioso nel giro dei Provenzano, dei Madonia, dei Lo Piccolo. Denaro sporco di sangue era, dunque, servito per acquistare terreni, piantare e coltivare vigneti, innestare le piante, curare bottiglie rinomate, farle diventare di moda, emblemi di una Sicilia che produce, che vive di lavoro, non muore di mafia?
Non era vero niente. Un pentito confuso e reticente ha portato fuori strada. Le intercettazioni non calzavano con le conclusioni. Mesi e mesi, anni di inchiesta (e di carcere) fanno un buco nell’acqua. L’azienda intanto passa di mano, “preventivamente” custodita da un paio di consulenti e amministratori che tutto fanno tranne che amministrarla. Forse era un complotto, ma certamente c’è voluta un’inchiesta-monstre e un profondo esame di coscienza del sistema dell’informazione perché il mito di questa eroina istituzionale dell’Antimafia finisse nella spazzatura. L’azienda di famiglia di Giafranco non si è ripresa, i figli stanno ricominciando lentamente ma da zero, anzi sottozero.
Non c’è solo il padre di Giafranco che ci ha rimesso le penne, ma altri, tanti altri, un esercito in rotta di imprenditori vittime della falsa prevenzione Antimafia, ex imprenditori che non ce la faranno a ripartire, riabilitati da sentenze troppo tardive, un esercito che intuisci sfogliando, avanti e indietro, come si fa con i manuali o i libri scritti da più mani e popolati da tanti personaggi. Giafranco ha fatto una chat su whatsapp tra le vittime innocenti delle misure di prevenzione, ma ha dovuto silenziare il telefono per i troppi squilli: “Nove aziende su dieci finite nel mirino dei tribunali falliscono, dai primi anni Ottanta si sono persi centomila posti di lavoro”. Si sta ancora disboscando una pletora di amministratori giudiziari incompetenti, se non peggio, che restituirono macerie e debiti a quei proprietari dopo tempi lunghissimi usciti dai meandri delle Misure di prevenzione. In cui si deve evitare di truppicare (inciampare, azzopparsi, in siciliano), assolutamente, si raccomandava con Giafranco un avvocato esperto della materia.
A pagina 43 i lettori con i capelli più bianchi, o senza, fanno un salto sulla sedia. Il giovane narratore figlio dell’ex imputato spiega, infatti, il suo turbinio di sensazioni e pensieri alla notizia dell’arresto del padre con un suggestivo déjà vu: “Io ci credo alla giustizia, io andavo a fare le manifestazioni quand’ero ragazzo, la Brancaccio Ciaculli (due quartieri palermitani regni di mafia ndr), la Bagheria Altavilla (due Comuni che delimitarono nei primi anni Ottanta una mappa triangolare disseminata da decine di morti ammazzati, l’altro lato era ancora Palermo ndr), quelle marce interminabili durante le quali gridavamo ‘boia’ sotto casa dei boss. No, non posso essere figlio di un mafioso e non essermi accorto di nulla per quarant’anni. Si sono sbagliati, è un brutto sogno, domani sarà tutto finito”.
Giafranco cita pagine di cronaca che abbiamo scritto tanti anni fa con partecipazione e speranza. Riavvolgo il nastro: Giafranco, dunque, era uno di noi, prima di rischiare di finire stritolato con la sua famiglia dalle false accuse della falsa Antimafia. Partecipava a quei prodromi di movimento di base, di studenti e intellettuali, di sinistra e molti preti e attivisti cattolici che nacque, e dei quali solo pochi giornali scrissero, quando ancora tutto o quasi tutto doveva avvenire… La Torre, Dalla Chiesa, il pool di Palermo, il maxiprocesso, le stragi di Capaci e di via D’Amelio, il sacrificio di Falcone e Borsellino…
Da quelle stragi – poi scrivemmo - stava nascendo il risveglio dello Stato, la giustizia che si desta dopo un lungo sonno… i maxiprocessi, la minutaglia dei sequestri dei patrimoni, denari, immobili, aziende. Andando via da Palermo ci lasciavamo alle spalle un paesaggio di ondate alterne, cavalloni, bonaccia, tempeste, la risacca, alte e basse maree. Tornandoci adesso, come ha fatto Lucio Luca con questo libro, trovi quasi soltanto speranze tradite. E ti chiedi se il sistema dell’informazione non abbia la sua parte di colpe, per aver partecipato alla costruzione del mito di una macchina super efficiente che nascondeva corruzione e macinava diritti e giustizia.
Allora metti da parte il volume, prendi respiro. Sfogli le cronache di oggi e scopri che si celebra un maxiprocesso per estorsioni. Ma imputata non è la mafia del pizzo, alla sbarra ci sono diecine di imprenditori, commercianti, professionisti che hanno pagato regolarmente la tassa mafiosa a Cosa Nostra nel quartiere simbolo di Brancaccio, dove padre Pino Puglisi pagò con la vita il suo no. E ora negano l’esistenza del racket, tacciono su una pratica ridiventata normale, su un sistema che torna a navigare a vele spiegate. Regolarmente alle scadenze, senza inseguire evasioni e condoni. Scambi di cortesie affettuose, come un tempo. Prima delle stragi, dei funerali di stato, dei cortei, dei processi. “Siamo a disposizione, quello che possiamo fare facciamo… sotto il vassoio ti ho messo cinquecento carte con tutto il mio cuore. Ci vediamo due volte all’anno. E qualsiasi cosa di cui hai bisogno viene a trovarmi”. Non è più vero che si paga per paura, ma per convenienza, e fino alla connivenza il passo è breve. Favoreggiamento è l’imputazione. Da estendere moralmente con le aggravanti a chi ha offerto l’alibi, la giustificazione, la speranza di poter fermare il mostro economico e sociale dell’economia mafiosa nelle aule di giustizia, trasformando in una mangiatoia lo strumento di prevenzione che era pensato per colpire i mafiosi.
Al cuore, nello stesso posto dove portano i portafogli. Dal romanzo alla cronaca una amara conferma: se si riuscirà a ripartire, si dovrà ripartire da zero. Perché la copertina del “romanzo” nasconde un “libro inchiesta”. Come si facevano una volta. Cioè scritti bene.
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