Italia, paese dell'amnesia
45 milioni di ex fascisti
senza pegni né pentimenti
Una recensione di
FABIO ZANCHI
Una Repubblica fondata sull’amnesia. Un Paese abituato a dissimulare il proprio passato. Valgono, ancora oggi, le parole taglienti di Winston Churchill: “In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. Più di recente Liliana Segre, intervistata da Enrico Mentana nel giorno in cui l’Università Statale di Milano le ha conferito la laurea ad honorem, ha ribadito: “Vero che non c’è stato pentimento nei fascisti servi dei nazisti. Mai nessuno ha chiesto scusa. Poi (dopo la Liberazione), tutti antifascisti, anche chi era stato fascista. Nessuno ha mai confessato. Mai un mea culpa”.
Come, e perché, sia stata possibile questa generale e profonda rimozione lo racconta Gianni Oliva nel suo “45 milioni di antifascisti”. Un libro fondamentale, che ricostruisce “il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio”. Lo fa raccontando passo passo le carriere inarrestabili di personaggi come Gaetano Azzariti: legislatore di fiducia del regime, tanto da diventare responsabile di tutta la legislazione fascista, presidente del Tribunale della Razza, ministro di Grazia e Giustizia nel governo Badoglio, giurista di fiducia di Palmiro Togliatti quando il capo del Pci divenne ministro di Grazia e Giustizia, e infine nominato dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi giudice della Corte costituzionale. Finirà la sua carriera, quattro anni prima di morire, come presidente dell’Alta Corte. Riassumendo, con le parole dello storico Oliva: “Da capo del massimo organismo dell’aberrazione razziale a capo del massimo organismo di garanzia della democrazia costituzionale: senza abiure, senza ritrattazioni, senza distinguo. E senza che nessuno glieli abbia chiesti, né il monarchico Badoglio, né il comunista Togliatti, né il democristiano Gronchi”.
45 milioni di antifascisti.
Il voltafaccia di una nazione
che non ha fatto
i conti con il ventennio
di Gianni Oliva
Mondadori editore
euro 21
Che ci fosse del metodo in questa follia istituzionale, lo confermano altri esempi. È il caso di Ciro Verdiani, in origine responsabile per la Dalmazia dell’Ovra, la polizia politica fascista, che ebbe da Ferruccio Parri l’incarico di indagare sulla sparizione dell’oro di Dongo mentre, nel 1949, il governo De Gasperi lo nominò Ispettore generale della pubblica sicurezza in Sicilia, per combattere il bandito Salvatore Giuliano, autore della strage di Portella della ginestra.
Altro nome, quello di Marcello Guida. Da giovane fu il direttore del carcere di Ventotene, dove Sandro Pertini e altri antifascisti vennero confinati. Nel 1969, nei giorni di piazza Fontana, è questore a Milano: sarà lui a raccontare che l’anarchico Giuseppe Pinelli si è suicidato gettandosi dal quarto piano della Questura. Ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana Pertini, presidente della Camera, si rifiuterà di stringergli la mano.
Queste carriere non proprio immacolate tracciano l’identikit di un Paese che ha innegabili responsabilità storiche. Una su tutte, capace di segnare quelle seguenti: l’Italia è il Paese che ha la primogenitura del fascismo. Detta con le parole di Churchill: “Quando una nazione si permette di sottomettersi a un regime tirannico, essa non può essere assolta dalle colpe di cui questo regime si è reso colpevole”.
Il problema della transizione alla democrazia, immenso, che Oliva riesce a dipanare con chiarezza, è che la pervasività del regime era davvero profonda. Tutta la burocrazia statale ne è stata forgiata. Come la struttura formativa: nel 1931 soltanto dodici docenti universitari rifiutarono il giuramento di fedeltà. Gli obbedienti furono 1835. Perfino i testi scolastici, di ogni ordine e grado, furono “fascistizzati”.
L’uscita dal fascismo si presentava come un problema enorme, anche perché andava coniugato con la necessità di tenere in piedi il Paese, o quel che ne restava. Le spinte perché si cambiasse radicalmente strada, il più in fretta possibile, c’erano. “L’epurazione dobbiamo farla adesso, perché dopo la liberazione non si fa più”, scriveva Roberto Battaglia, comandante della Divisione GL “Lunense” al questore di La Spezia, appena insediato dal CLN. E uno come Nuto Revelli, tornando dalla Francia a Cuneo, di fronte allo sbandamento dei militi della “Littorio” spingeva forte: “Non dico di sbudellarli tutti i fascisti, ma spariamo perché è l’ora. L’importante è sparare il meglio possibile, adesso, ognuno come può”.
Le risposte furono inferiori alle aspettative. Uno come Pietro Nenni, allora leader del PSIUP, nei suoi diari, spiegò: “L’errore fu aver voluto non fare, ma strafare”. La realtà imponeva mediazioni, al ribasso, con i partiti moderati. Così anche la legge che porta il suo nome fu un sostanziale colpo di spugna: l’epurazione dai pubblici uffici dei funzionari e degli impiegati compromessi con il fascismo venne limitata ai gradi superiori al settimo.
Anche il comunista Togliatti si trovò con le mani legate: da un lato non poteva rompere con De Gasperi, e dall’altro il suo interesse principale era legittimare il Pci come partito democratico e popolare. Così il 22 giugno 1946, ad appena quattordici mesi dalla Liberazione, venne firmata l’amnistia. Detto per inciso: amnistia è parola che ha la stessa derivazione, dal greco, del termine amnesia.
Oliva dedica pagine di grande chiarezza a un altro aspetto, di solito passato sotto silenzio. Anche sulla guerra la memoria dell’Italia è a dir poco annebbiata. Come ricorda nel suo libro, “l’Italia non è un paese che ha subito un’invasione come tante altre regioni d’Europa… È il paese che ha la primogenitura del fascismo, avendolo autonomamente inventato sin dai primi anni Venti; che ha sottoscritto il Patto d’Acciaio per una libera scelta di Mussolini e di Ciano; che per tre anni, pur in una posizione subalterna rispetto alla Germania, ha combattuto contro gli Alleati e occupato territori nella Francia meridionale, nei Balcani, in Grecia, in Egitto; che ha contribuito alla definizione del nuovo ordine europeo voluto da Hitler e dal gruppo dirigente nazista”. Paese sconfitto, dunque. Come tale fu accolto a Parigi, al tavolo dei veri vincitori, il 10 agosto 1946.
Per evitare che anche la Resistenza (“la sola esperienza del periodo che ci ha messo dalla parte giusta”, nota Oliva) diventi un alibi per continuare ad assolverci come Paese, e soprattutto per evitare che si scivoli di nuovo nell’abisso senza accorgercene, libri come questo sono fondamentali. Permettono di rimettere in ordine una memoria assai labile. Di riconoscere e distinguere meriti (pochi) ed errori (tantissimi, di tutti). E soprattutto di sottrarci per quanto possibile a uno dei riti più inutili, da ultimo molto diffusi: chiedere professioni di antifascismo a chi, per storia e inclinazioni personali, non lo è. E mai lo sarà, a prescindere dalle cariche istituzionali che ricopre.
PS: Altri due libri, sul tema, sono consigliabili:
AGNESE PINI “Un autunno d’agosto” – Chiarelettere – Euro 18,00
MARCO DE PAOLIS “Caccia ai nazisti” La storia del procuratore che ha portato alla sbarra i colpevoli delle stragi naziste in Italia, da Sant’Anna a Marzabotto – Rizzoli – Euro 19,00
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