Il razionalismo
in Italia
Grandi architetti
nella gabbia
del Ventennio
Una recensione di
ROBERTO ROSCANI
Ci sono incroci inattesi quando si legge un libro. Incroci tra contenuti di studio - in questo caso di storia dell'architettura - e attualità politica. Mi è capitato di leggere in questi giorni (è fresco di stampa) un agile volume firmato da Fabio Isman che fa parte della interessante collana del Mulino che porta il titolo di "Andare per". In questo caso l'andare di Isman ci porta sulle tracce dell'"Italia razionalista" (questo il titolo, 157 pagine 14 euro). È una guida a quegli straordinari esempi architettonici che hanno fatto il razionalismo italiano, aperto da Terragni e dal Gruppo 7 in cui al grande architetto comasco si aggiunge Adalberto Libera. Isman individua un gruppo di giovani straordinari: tra i nomi quelli di Giò Ponti o di Pagano e Persico o gli altrettanto importanti BBPR, ovvero Banfi, Belgiojoso, Peressutti e Rogers ma molti altri se ne potrebbero fare e vengono fuori da queste pagine. È una giostra di edifici (quasi tutti pubblici, quasi tutti frutto di concorsi) che vanno dagli uffici postali alle case del fascio, dalle colonie estive alle sedi comunali, dalle chiese agli uffici pubblici.
ANDARE PER l'Italia razionalista
di Fabio Isman
Il Mulino editore
14 euro
Isman ci porta in giro per l'Italia, da Como a Sabaudia, da Roma a Carbonia, da Torino alle "città di fondazione" legate alle bonifiche e all'attività dell'ONC (ovvero l'Opera nazionale Combattenti). La guida è di grande interesse ed è uno strumento utilissimo per chi voglia mettersi in giro per l'Italia alla ricerca del periodo forse migliore dell'architettura italiana del Novecento.
Ma qui cominciano i problemi: quanto dura quella architettura e la si può leggere come una "architettura fascista"? Le date indicate da alcuni storici dell'architettura, come Giorgio Ciucci, sono molto strette a si fermano ai primi anni Trenta (per l'esattezza al concorso per il palazzo del PNF). Eppure lo stesso Isman nel suo racconto fatica a tenere fermi i confini non solo temporali ma anche stilistici.
Se dovessimo fermarci all'architettura verrebbe da dire che questo razionalismo italiano ha certamente caratteri estremamente specifici ma si muove all'interno di una temperie architettonica che vede affermarsi le grandi avanguardie novecentesche, cominciando dal Bauhaus, dai lavori di Le Corbusier ma anche da certo strutturalismo sovietico, da personalità come Aalto o Frank Lloyd Wright. Quei giovani originali architetti non si muovevano nel vuoto, avevano precursori e avrebbero avuto successori (talvolta imitatori) in anni molto lontani da quelli indicati da Ciucci.
Fabio Isman nelle sue pagine cerca di tenere separato il mondo del razionalismo da quello del resto dell'architettura italiana che in quei decenni era certamente "architettura fascista". Certo tra il monumentalismo di Brasini e le geometrie severe di Terragni non c'è parentela. Ma persino il personaggio più "accademico" dell'architettura di Regime, il potentissimo Marcello Piacentini, si trovò ad essere, in momenti e fasi diverse, ostile e amico del razionalismo. Persino in alcune sue opere (il ministero dell'Industria in via Veneto per dirne una) o nel suo ruolo di "organizzatore di grandi progetti urbani (dall'Università la Sapienza a Roma all’'E 42, quello che sarebbe diventato l'Eur), non può non fare i conti col razionalismo e in qualche modo imitarlo o "annetterlo" (o escluderlo a seconda delle convenienze politiche).
Lo stesso Mussolini aveva compreso la forza simbolica ed estetica di questi edifici e oscillava dicendo, talvolta, che "d'ora in poi le case del fascio dovranno rifarsi a questo stile", salvo poi non farlo. L'architettura (la grande architettura che non è fatta di singoli edifici ma di una idea delle funzioni urbane e del rapporto che queste hanno con il vivere della società e degli individui) era certamente una delle forme espressive a cui il fascismo ha contraddittoriamente guardato con attenzione.
Nel libro di Isman - ma non era questo il suo intento - è appena sfiorato, ad esempio il rapporto tra fascismo e città, non certo un rapporto di amore. Questi architetti così cittadini non potevano piacere davvero a chi aveva in mente un'Italia rurale. Nel ventennio la crescita delle città - con l'esclusione forse di Roma che andava acquisendo sempre maggiori funzioni politico amministrative - fu inferiore a quella dei piccoli centri. E proprio gli esempi delle bonifiche tanto spesso sbandierati come "le cose buone fatte dal Fascismo" avevano una radice "ideologica", visto che nella testa delle organizzazioni fasciste quello che contava era la terra da distribuire ai contadini, a patto che non fosse la terra dei grandi latifondisti. Mussolini non volle partecipare alla fondazione di Littoria (Latina) proprio perché era una città. Il regime perseguiva una idea di ruralizzazione ma non aveva il coraggio di fare la "riforma agraria", cosa che a dire il vero anche la Repubblica impiegò anni a fare e fece a dir poco timidamente. Ma il latifondo era stato tra i maggiori finanziatori del fascismo e non solo a Sud, e grandi proprietari terrieri erano nei posti di comando del regime.
E qui arriviamo agli incroci con l'attualità che poco ha a che fare col razionalismo ma molto ha a che fare col fascismo, con la sua storia, con la "memoria condivisa" (se ce ne può essere una) di questo Paese. Questo libro ci racconta un’Italia intellettuale perfettamente integrata alle avanguardie europee e internazionali, ma che vive all'interno di un "bozzolo" autarchico ultraconservatore. Il regime è, via via, sempre più attratto dalla tronfia magniloquenza imperiale, che sostituisce al razionalismo emerso con forza a cavallo tra la fine degli anni Venti e i primi Trenta il fasullo neoclassicismo dei tardi anni dello stesso decennio. Anche se persino nel progetto dell’Eur Piacentini non riesce a tener fuori Libera col suo Palazzo dei Congressi o il bellissimo ufficio postale di Peressutti e Rogers (che non poté firmarne il progetto perché ebreo).
È il caso di ricordare allora che quegli stessi architetti, inizialmente blanditi dal regime, finirono per diventare - tutti o quasi - attivamente antifascisti; alcuni di loro morirono a Mauthausen per le loro origini ebraiche, altri parteciparono alla Resistenza, altri ancora furono nel dopoguerra i protagonisti di un grande impegno sociale dell'architettura per la ricostruzione del Paese in una chiave stavolta molto meno legata a singoli grandi edifici e molto di più ai piani per l'edilizia popolare.
Se vogliamo anche un libro come questo, nato non certo per esser dentro alle polemiche storico politiche, ci aiuta a capire da una parte la complessità del ventennio fascista (d'altra parte ogni regime totalitario deve in qualche modo cercare di raccogliere "tutto" anche nelle tendenze culturali), dall'altra la necessità di fare i conti con questo passato. E questo deve apparire troppo difficile a una destra che fatica a tagliare il cordone ombelicale con la sua storia e per la quale la parola antifascista – l’unica che andrebbe pronunciata – appare come un tabù.
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