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Poema
della grazia

Quando la poesia
aspetta la prosa

Una recensione di
GIGI SPINA

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Eccola, sulla mia scrivania, l’ultima raccolta di poesie di Paolo Birolini, "Poema della Grazia", con una copertina ben riuscita, sulla quale una piccola sagoma bianca si staglia su un cerchio totalmente nero. Non sapremo mai se quella figura venga verso di noi o da noi si allontani. Forse lo capiremo solo alla fine di queste 80 pagine: quattro volte venti, avrebbe scritto un poeta francese.

Lo ammetto subito: la prefazione di Silvio Aman è molto più bella di quella che scrissi a una raccolta precedente.


Poema della grazia

di Paolo Birolini

Edizioni della Meridiana
10,92 euro

Perché è da poeta a poeta. La mia era da amico ad amico. Da chi legge poca poesia, e quasi solo degli amici.

E una bella prefazione apre le orecchie e gli occhi, per seguire meglio i cinque passi della Grazia, o per la Grazia, ciascuno accompagnato da un poeta antico e da pochi righi di prosa ‘poetica’ del poeta nuovo.

Anche queste voci, altre e autoriali insieme, predispongono all’ascolto, e alla vista.

Le parole esigono fantasie, immagini, ferme o in movimento. Ognuno avrà le sue. Io mi sono fermato a farmi cullare e guidare dal terzo passo, che mi è parso contarelliano, sin dalla prosa. E so anche perché: per la precisione della parola che evoca, per l’apostrofe ai lettori, o all’umanità che circonda, per il gusto del paradosso, per il Martini screziato, per l’ossimoro dell’infinito che finisce, per l’assenza del lentisco.





Per questo non ho accettato l’invito al riposo domenicale del primo passo: il settimo giorno si riposò, ho ricordato, e interruppe il creare.

E ho fatto bene. Perché all’ultimo passo, il quinto, mi sono ritrovato a far parte del coro, nel finale teatrale, e come si fa a resistere al teatro.

Finale che si vorrebbe in prosa.

Ma il poeta è poeta, anche quando fa testamento.

Anche quando, alla fine della prosa che introduce, menziona il topazio. E il poeta sa che per il topazio io ho una passione particolare, e una fedeltà che arriva fino alla cima dei capelli.

Si chiede al poeta, da amici sinceri, di concludere il suo percorso con questo poema della Grazia. Per passare alla prosa, al racconto serale, notturno, a misura di social, o anche di ricordo tenace, che aspetta solo di essere trasformato in parole nette e pesanti.

Senza smettere a metà del rigo o a metà del pensiero e del ricordo.

Lo so, l’ho letto in un’epistola di Seneca a Lucilio (108, per essere preciso), che il filosofo dev’essere capace di proporre i suoi precetti, le sue scelte etiche, inframmezzando ai discorsi dei versi quelle massime che trovano nel ritmo e nella concisione di un verso un’armonia persuasiva che nessun discorso potrebbe offrire.





Ma Seneca aveva presente un filosofo stoico, Cleante: quando soffiamo dentro una tromba, il nostro soffio, incanalato dentro quel tubo lungo e stretto, attraverso l’apertura più ampia produce un suono più squillante. Così, la rigida costrizione del verso rende i nostri sentimenti più limpidi.

Non so se questo rimanga vero, dai tempi di Cleante e di Seneca.

So che Paolo Birolini potrebbe farlo: dare concretezza, chiarezza e ritmo anche a parole diffuse in prosa.

E questa potrebbe essere una nuova Grazia.




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