Nell’ “Oppenheimer” di Nolan dall’arida Los Alamos partivano ogive nucleari per una sporca, fatidica missione, la freccia della Storia si muoveva verso la pax americana, il maccartismo, l’ossessione per gli invasivi “ultracorpi” comunisti (cfr Don Siegel), la speranza kennediana. Sono passati dieci anni, siamo nel ’55, e nel deserto tra Nevada e Arizona di “Asteroid City” tutto è immobile e piombato nel nonsenso, in uno scenario fordiano di cartapesta, solo l’orizzonte qualche volta è mosso dai funghi dei test nucleari. E i personaggi - un piccolo concentrato di società americana: militari, scienziati, uomini e donne sole lì capitati per caso - vagano in cerca di un significato esistenziale.
“Asteroid City” è cinema, teatro e metateatro. Wes Anderson, antico (ha 54 anni) ragazzo texano, stavolta vuol andare oltre la glassa nostalgica dei precedenti “The French dispatch” e “Grand Budapest Hotel” e, pur inzeppando i 104 minuti di film coi “suoi” attori più altri graditi ospiti immersi nei classici colori pastello con sabbiatura rétro, prova a scrollarsi di dosso quel calligrafismo piacione da “sotto la scenografia niente” che gli è valso più d’una accusa - ingenerosissima - di essere, in fondo, solo un interior designer molto fashion, un creatore di mode visive, peraltro collaboratore - ben retribuito s’immagina - di Prada.
Ci è riuscito o siamo all’abituale delizia per gli occhi, fumettistica e volta ai “bei tempi andati”, così abbordabile per il vasto esercito degli aficionados? Ai tableaux vivant tra tenero e grottesco? La sfida è vinta in parte, forte è l’impressione che il regista abbia voluto mettere in discussione, pur con l’abituale arsenale estetico, il senso stesso del suo fare cinema, andando in cerca di una nuova purezza stilistica, a costo di risultare qua e là noiosetto. Ma nell’esibita cartapesta trasmette bene l’angosciante vuoto di un’America immobile, perplessa, umanamente prosciugata. In tempi minacciosamente trumpiani è qualcosa più di un’ipotesi personale nichilista.
Asteroid City, una mosca nel polveroso nulla, ma con meccanico per auto (Matt Dillon), tavola calda e motel (lo gestisce Steve Carell) sta accogliendo un drappello di genitori e figli superdotati in materie scientifiche, nerd di genio e inventori patriottici - tra l’altro - di armi “spaziali”, in gara per ottenere i cinque premi principali messi in palio, si presume, da un pezzo grosso del complesso militare-industriale. Augie Steenbeck (Jason Schwartzman, efficace recitazione asettica fino al limite dell’inespressività) è un fresco vedovo con tre figliolette più il primogenito Woodrow (Jake Ryan), una testolina di adolescente sveglia con ormone in subbuglio. “I Tenenbaum” e “Il treno per Darjeeling”, che parlavano di famiglie disfunzionali e però vive, sono lontani, Augie infatti sarebbe ben felice di mollare l’intera prole al nonno Stanley Zak (Tom Hanks).
Il nome della cittadina deriva da un corpo celeste del diametro di mezzo metro lì caduto in passato provocando un discreto cratere, e giusto nei pressi la dottoressa Hickenlooper (Tilda Swinton) ha organizzato la premiazione, davanti al generale Gibson (Jeffrey Wright) e al suo solerte aiutante Tony Revolori (lo Zero Moustafa di “Grand Budapest Hotel”). Platea nutrita e attenta. E scende un’astronave completa di alieno. Oblungo, grossa testa tonda, sgrana gli occhi a palla, pare si chieda: dove sono capitato? Scende dall’astronave, prende l’asteroide e se ne vola via in una luce verde. Lo stesso capoccione lo troviamo tra le mani di Jeff Goldblum col costume da alieno, mentre fa pausa dietro le quinte di un teatro. Ovvero?
Spiegare la trama di un film che si basa proprio sull’impossibilità di una linearità narrativa, di un racconto compiuto perché non c’è più alcuna verità da offrire, è operazione assurda.“Asteroid City” è un film multipiano, perché è anche una pièce, di Conrad Earp (Edward Norton), autore tormentato pure dal protagonista Augie: barba che si mette e si leva, un fumus di inadeguatezza generale, di impotenza. Ci sono un teatro - e le relative scene sono in bianco e nero - , un autore-attore e un attore mai entrato in scena, Schubert Green (Adrien Brody), che è un attore-Godot, vive tra gli arredi di scena e spera di recitare nei panni di Augie Steenbeck. E c’è un presentatore serioso (Bryan Cranston) che fa il verso a Rod Serling della storica “Twilight Zone”: un presentatore televisivo. Quindi tv, teatro, cinema in alternanza.
E una fitta, andersoniana serie di richiami all’imagery americana (il bagaglio culturale sedimentato di immagini, ricordi, allucinazioni) degli anni Cinquanta e primi Sessanta. La Midge Campbell di Scarlett Johansson, mai così brava, è un’attrice smagata che anche fuori scena si trucca il volto per dar l’idea di essere stata picchiata e richiama la terminale Marilyn Monroe de “Gli spostati” (guarda caso, film girato per la massima parte in Nevada). Coltiva una relazione minimale con Augie, i due si parlano da una finestra all’altra del motel e sono scene girate da dio, con una orizzontalità, una profondità di campo e inquadrature fisse che consegnano Augie e Midge a una penosa, glaciale separatezza/incomunicabilità. Il giovanotto Montana (Rupert Friend), meno tontolone di quanto appare, è un James Dean pronto alla scazzottata e l’ospite del motel interpretato da Bryan Cranston sta in una via di mezzo tra Hemingway e il Malcolm Lowry di “Sotto il vulcano”: vite al limite.
La non-storia vede la riconsegna dell’asteroide ai terrestri da parte dell’alieno (il vero mistero non è lui, è la terra), l’intervento paranoide dell’esercito che mette tutti in quarantena e la rivolta dei giovani scienziati contro l’isolamento. Sono i più in sesto della compagnia e torna il tema della generosa innocenza, con ragazzini che sono più adulti dei grandi ( “Moonrise Kingdom”) e adulti bambinizzati (il generale Gibson). In “Asteroid City” e dintorni teatrali gli amori sono sospesi, interrotti (in una scena fuori film compare Margot Robbie nei panni della moglie defunta di Steenbeck, chiacchiera da un balcone all’altro con Augie: straniante), le anime dolenti, l’intelligenza negletta. In questa tripla finzione, tra un’opera teatrale non rappresentabile e un nulla incombente, solo l’emotività è vera e fanno da piccola bussola contro il disorientamento i dolci, nostalgici residui disseppelliti dai solai della memoria. Un’aura di Marilyn, di James Dean, di vecchie serie tv. I sandali da bambino indossati da Wilem Dafoe (non li ha mai dismessi dai tempi delle “Avventure acquatiche di Steve Zissou”). È l’imprendibile Beep Beep, il pennuto Road Runner bramato invano nei cartoons della Warner Bros da Wile E. Coyote e rievocato da Anderson in stop motion (tecnica usata “In Fantastic Mr Fox” e “L’isola dei cani”), a sigillare il film, mentre risuona “Indian Love Call” nella versione di Slim Whitman (1952), una sorta di jodel in salsa western insopportabilmente melenso, capace in “Mars attack” di Tim Burton di spappolare i cervelli ipertrofici dei perfidi alieni: “Oo-oo-oo-oo, oo-oo-oo-oo/ When I'm calling you/ Oo-oo-oo-oo, oo-oo-oo-oo/ Will you answer too?”. Arma perfetta in un’America in recessione psichica davvero ai confini della realtà e oltre, senza più cesure tra fiction e quotidianità.
Il regista è tra i produttori e firma anche soggetto (con Roman Coppola) e sceneggiatura, distribuisce Universal Pictures. Corre voce che Scarlett Johansson abbia accettato un compenso di 4.131 dollari a settimana per due mesi di lavoro. Girare con Wes Anderson dev’essere ritenuto un onore e un’ottima occasione per una rimpatriata amicale tra colleghi, il budget, non esorbitante per le latitudini hollywoodiane, era comunque di 25 milioni di dollari, abbastanza per arruolare due fuoriclasse, alle musiche Alexandre Desplat e ai costumi Milena Canonero.
PS Pare sia obbligatoria la seguente citazione e ci adeguiamo. “Asteroid City” assomiglia a un romanzo di Thomas Pynchon: molti protagonisti, molte linee narrative, tracce di plot senza seguito.