Più che dimenticata vorrei dire sconosciuta, mai rappresentata.
Il nome di Sally Gabori penso sia ignoto alla più parte della gente.
È la storia drammatica di una donna aborigena nata a sud dell’isola di Bentinck nel Golfo di Carpentaria, parte delle isole Wellesley, vicino alle coste settentrionali del Queensland in Australia.
È bene dare una indicazione geografica del “dove”, per misurare la lontananza e la diversità da tutto ciò che ci è più familiare.
Ci confrontiamo con una cultura quasi mai rappresentata. È la cultura aborigena, l’arte aborigena, l’arte, appunto, di Sally Gabori, che rappresenta un riscatto culturale e dà voce, attraverso le sue tele, alla comunità aborigena Kaiadilt, alla sua terra.

Sally nasce nel 1924 in una piccola comunità isolata, poco più di un centinaio di persone che parlano la lingua Kayardild: lì vive con la famiglia delle risorse naturali dell’isola e si occupa di pesca e di tessitura di cesti. I Kaiadilt furono l’ultimo popolo autoctono del litorale australiano ad entrare in contatto con i colonizzatori europei.
Questi gli elementi chiave della sua storia.
Tra il 1940 e il 1948, a seguito di un violento ciclone che inonda le terre e contamina le riserve di acqua dolce, i missionari presbiteriani -che da tempo sollecitano una soluzione di questo genere e che avevano invano tentato di attuarla - riescono progressivamente ad evacuare l’intera comunità dell’isola e l’ultimo gruppetto di persone, tra cui Sally che viene strappata alla sua terra di origine. Ha inizio un periodo che segnerà per sempre la sua vita e l’anima, come una profonda frattura e l’esilio dalla sua terra e dalla sua cultura.

Collezione privata., Melbourne, Australia. © The Estate of Sally Gabori. Photo: © Simon Strong)
I Kaiadilt vengono trasferiti nella missione presbiteriana sull’isola di Mornington e ospitati in accampamenti sulla spiaggia; i bambini sono separati dai genitori e alloggiati in dormitori con il divieto di parlare la loro lingua materna, recidendo così ogni legame con la loro cultura e le loro tradizioni. Questo intervento “umanitario” di “salvataggio” e di “civilizzazione” non fu di breve durata perché si trasformò in una vera e propria prigionia/esilio per circa quarant’anni, determinando condizioni di povertà, depressione, tristezza e avendo un impatto negativo perfino sulle nascite e sulla sopravvivenza dei piccoli Kaiadilt.
La loro lingua, strettamente legata alla terra di origine e quindi all’isola di Bentinck, verrà parlata sempre meno, contaminata con l’inglese, e da un numero sempre più esiguo di persone. Diventerà una lingua lontana, perdendo di intensità e significato slegata com’è dal suo contesto originale. Nel 1981, anche a causa del dramma della “stolen generation” la lingua Kayardild era parlata da forse 50 persone e nel 2016 solo da 8…

Estate Sally Gabori, Cairns, e Alcaston Gallery, Melbourne, Australia. © The Estate of Sally Gabori. Photo: © Simon Strong)
Sally Gabori, come da tradizione, ha un nome aborigeno, difficile a pronunciarsi, Mirdidingkingathi Juwarnda, che deve essere interpretato e deriva dalla tradizione del suo popolo, che vuole che il nome ricalchi il luogo di nascita, per lei Mirdidingk un’insenatura a sud dell’isola di Bentinck, al quale si aggiunge il suffisso ngathi che è il totem ancestrale legato alla sua nascita, per lei il delfino juwarnda.
Anni prima altri eventi drammatici avevano colpito questa piccola comunità, e un discendente Kaiadilt li racconta al linguista antropologo Nicholas Evans, avendoli appresi dai suoi genitori. Tra il 1916 e il 1918, un avventuriero conosciuto solo con il nome di McKenzie, intenzionato a stabilirsi nell’isola di Bentinck, avvia un allevamento di pecore e per appropriarsi dei luoghi e affermarne il possesso usa percorrere a cavallo l’isola accompagnato da una muta di cani, uccidendo sistematicamente ogni abitante uomo Kaiadilt che abbia la disgrazia di incontrarlo. Le donne no, quelle le rapiva e le stuprava.

Pittura polimerica sintetica su lino, 198 × 305 cm
Patricia Roberts, Melbourne, Australia. Photo © Simon Strong)
I Kaiadilt si rifugiano in un’altra isola finché costui non scompare. Solo allora potranno ritornare a Bentinck. Questi fatti furono registrati con il nome di “Massacro di Bentinck Island” e sono giunti a noi solo nel 1980….
Sally Gabori negli anni ’90, dopo decenni di battaglie civili combattute insieme alla sua gente perchè siano riconosciuti i diritti territoriali aborigeni, finalmente ottiene che ai Kaiadilt venga pienamente restituito il diritto alla loro terra e la possibilità di ritornare alla piccola isola di Bentinck.
Sally e le altre donne Kaiadilt finalmente rivedono i luoghi natali e possono ricostruire il senso della memoria e dei ricordi. Ma tornare a vivere a Bentinck è impossibile per la mancanza di strutture, scuole, presidi sanitari. Esiste solo un piccolo avamposto con case, un negozio e la pista di atterraggio a Nyinylki, costruito dagli stessi presbiteriani con l’idea di ripopolare Bentinck. Questa postazione verrà chiamata Old ladies camp in onore di Sally e del gruppo di donne Kaiadilt che da questi luoghi, evocando questo piccolo universo, hanno tratto memorie e ispirazione artistica.

National Gallery of Victoria, Melbourne, Australia. Acquistato da NGV Supporters of Indigenous Art, 2010
© The Estate of Sally Gabori. Photo: © National Gallery of Victoria)
Nel 2005 Sally ha più di ottanta anni e scopre la pittura grazie al centro d’arte dell’isola di Mornington diretto da Bereline Loogatha; da quel momento non si ferma più fino a dipingere oltre duemila tele, ma c’è chi dice siano assai di più. L’arte di Gabori rispetto a quella delle altre donne Kaiadilt spicca per la straordinaria espressività. È finalmente una celebrazione del suo passato e della sua storia.
I dipinti di Sally Gabori nascono dall’anima e dalle viscere, dai suoi ricordi. Mentre dipinge non ha spunti né luoghi, né acque né campi dai quali trarre la memoria, ma ogni pennellata è un ricordo, un simbolo, un luogo che esce dal suo “io” più profondo e torna a vivere nel dipinto.
Una pittura che vivifica il ricordo di una terra di appartenenza, il filo rosso che la collega alla terra madre.
Un’arte dalla forte espressione autonoma e caratterizzata da grande libertà formale.

Alcaston Gallery, Melbourne, Australia © The Estate of Sally Gabori. Photo: © Simon Strong)
Parliamo di arte aborigena che non significa necessariamente arte australiana perché appartiene ai “traditional owners” di questo immenso paese. Un termine coniato come riconoscimento e rispetto dei diritti di quei popoli e tribù che vivevano nei territori australiani prima dell’arrivo degli europei. Esistono termini legati a processi di rimozione più o meno consapevole che puntano a smussare l’impatto del negativo bilancio storico a proposito della colonizzazione e del colonialismo culturale.
L’arte aborigena, in ogni sua forma, è qualcosa di unico perché si riferisce alla storia e alle esperienze di uno o più uomini e alla loro cultura indigena dal passato millenario il cui contenuto è custodito nel “Dreamtime” o Tempo del Sogno. Ricco di una mitologia sottile e affascinante, magica e poetica.

Collection HOTA, Home of the Arts, Gold Coast, Australia. Donato da un cittadino della Gold Coast
alle future generazioni 2019. © The Estate of Sally Gabori. Photo: © Peter Waddington)
Oggi i valori culturali autoctoni vengono promossi ed esaltati sul mercato dell’arte per coprire sterminio, ghettizzazione, isolamento, integrazione, tutto parte di un passato non poi così lontano, difficile da accettare, impossibile da dimenticare.
Sally, creatura straordinaria come donna e come artista, ha vissuto in larga misura tutto questo.
Le tele sue e delle altre donne sono come libri scritti: ci sono i paesaggi, i cibi, le tradizioni, la famiglia. È memoria di ciò che è stato, che si vuole comunicare perché non venga dimenticato.
La sua immaginazione non ha limiti, i ricordi fluiscono tra luoghi e persone e si traducono in dipinti che mostrano un’impressionante libertà formale, ispirata dalle infinite variazioni di luce del paesaggio causate dal clima mutevole del golfo di Carpentaria, ma anche intrisi del ricordo dell’esilio, della separazione forzata, del dolore, delle violenze subite.

Private collection, Melbourne, Australia. © The Estate of Sally Gabori. Photo © Simon Strong)
Per nove anni, quasi lottando contro il tempo, fino alla sua morte nel 2015, Sally dipinge freneticamente, come appare in una foto che la ritrae quasi come parte dell’opera alla quale sta lavorando. Pennellata vigorosa e colori decisi e audaci, giochi di forme, sovrapposizioni di superfici, opere apparentemente astratte che hanno una capacità evocativa concreta con l’esplosione dei colori che ci rimanda a una natura potente e incontaminata. Ma sono soprattutto i pensieri che si affollano nel tentativo di districare i ricordi di una vita passata, luminosa, un po' sbiadita. La bellezza dei luoghi è intrappolata nella mente e sgorga libera attraverso il braccio e il pennello che ne è l’estensione.
Sally, insieme con altre sei donne Kaiadilt, ha creato un dipinto composto da sette sezioni, una per artista, che esprimono le diverse sensibilità. Ogni donna ha raffigurato sulla tela scorci di paesaggio, cose, oggetti che più le ricordano Bentinck, usando specifici colori per rafforzarne il significato simbolico.
Questo è il “senso del tutto” (Dulka Warngiid): vivacità, felicità, dolore passano sulla tela, mentre l’arte diventa il riflesso della loro anima.

Bendigo Art Gallery, Bendigo, Australia Purchase, 2016. © The Estate of Sally Gabori. Photo: © Simon Strong) )
Sally Gabori è considerata una delle artiste australiane più importanti degli ultimi decenni. Ha avuto la sua prima mostra nel dicembre 2005 alla Woolloongabba Art Gallery di Brisbane mentre la Fondazione Cartier di Parigi ha presentato la sua prima mostra personale al di fuori dell’Australia.
Ha dipinto con pittura polimerica sintetica su lino, sperimentando diversi metodi e modi, lavorando per lo più in solitario, ma ci sono tele immense, lunghe fino a sei metri, realizzate insieme con figlie, sorelle, nipoti - molti di loro nati sull’isola di Bentinck - che sono una vera e propria realtà immersiva.
Una eredità preziosa, un commovente omaggio alla sua storia e la conferma dell’importanza del dialogo con queste realtà tribali.
“Questa è la mia terra, questo è il mio mare, questo è ciò che sono io”